Ci sono proposizioni che sono insieme giuste, cioè, dotate di intrinseca rettitudine di giudizio, e solenni, in quanto ispirate da fatti “di prima grandezza”. Una di queste proposizioni giuste e solenni è: “L’affare di uno solo è l’affare di tutti”, di George Clemanceau, primo ministro francese a cavallo della Prima Guerra Mondiale. Secondo Hannah Arendt, essa esprime compiutamente “la concezione repubblicana della vita pubblica”. Fu scritta nel Gennaio 1898, in un articolo intitolato “L’iniquitè”, a margine del famoso “Affaire Dreyfus”: l’ufficiale dell’esercito francese calunniato, processato e condannato come spia (e dopo lunghe tribolazioni, riabilitato).
Pertanto, niente come una notizia “minore”, come usa dire, sembra perfetta per confermare la profonda compiutezza di quella frase: “l’affare di uno solo è l’affare di tutti”. A Pescara, qualche giorno fa, due signori entrano in una scuola elementare, a passo sicuro; chiedono appena al personale ausiliario dove sia la scala; la imboccano, arrivano ad un’aula, di V, bambini di 10 anni; bussano, chiedono alla maestra di uscire; sono carabinieri “in abiti civili”; esce, la sottopongono ad “arresto in flagranza di reato”; in cortile, per la “traduzione”, l’attendono due auto: queste invece con colori e lampeggianti d’ordinanza; starà a casa sua, data l’età (64 anni) e la condizione di “incensurata”, si può supporre.
Circa un mese prima, alcuni genitori l’avevano denunciata. Rigorosa; troppo. Si apre un’indagine, e una telecamera è collocata in classe. Pizzicotti, rimproveri ad alta voce, qualche strattonamento, qualche tirata di capelli (“Ogni tanto”, preciseranno gli investigatori). Quello stesso giorno, alla (tele) vista di un’altro strattonamento, perciò, era stato eseguito “il blitz”: come la cronaca locale ha marzialmente commentato.
Si è appreso dalla conferenza-stampa che l’autorità procedente avrebbe rilevato “…condotte ripetute e abituali di pratiche di insegnamento che travalicavano i limiti dello ius corrigendi…”, in realtà, trascese “… in atti vessatori”. (Il “diritto di correggere” è tradizionale formula giuridica che rimanda ad un incisivo “ridurre a ben fare”). Nessuno dei bambini presentava anche minimi segni di lesione fisica. Per semplicità, acquisiamo in questi termini gli accadimenti: sebbene la maestra, di fronte al giudice dopo l’arresto, si sia avvalsa della facoltà di non rispondere, e, dunque, non si conosca se e quale sarebbe la sua spiegazione (che non l’abbia data in quella sede, infatti, non significa ancora che non ne abbia una).

Si possono, però, registrare alcune notizie. La scuola, “Piano T” il suo nome, è situata in un quartiere, “Zanni”, unanimemente ritenuto difficile. Non consta fama pregressa di crudeltà: giacché la maestra è stimata sia dai colleghi, i quali ne parlano, increduli di fronte alla notizia, come “una brava persona”, sia da “tanti genitori di ex alunni”: “una persona seria”, dicono. Gli uni e gli altri descrivono, anzi, una sua costante disponibilità verso gli alunni e le loro famiglie; la si ricorda anche impegnata a promuovere una colletta, per aiutare alcuni genitori, in difficoltà a pagare le bollette della luce. Due giorni dopo, l’arresto, pur convalidato, è sostituito con una “misura cautelare interdittiva”: sospensione dall’insegnamento. Nonostante il silenzio dell’indagata, come si diceva. E almeno questa prudenza si capisce. Meno si capisce tutto il resto. Il punto criminoso sembrerebbero le “pratiche di insegnamento”, da cui sarebbe sorto “un clima di tensione”.
Altri maestri di quell’istituto, confermata per parte loro, in punto di principio, la censura delle “percosse” (peraltro, a rigore, qui non ce ne sarebbero), tuttavia, aggiungono: “Si dimentica che questa è una scuola di frontiera, dove c’è di tutto. E noi siamo lasciati soli, tutti i giorni, ad affrontare situazioni anche al limite, con famiglie perbene, ma anche con famiglie assenti e bambini abbandonati a loro stessi”. O forse no; si capisce tutto. È qui, infatti, che il buon Presidente Clemanceau torna a farsi sentire.
“L’affare di tutti”, oggi, è questo: la morte della fiducia; il disfacimento della parola, quale fondamentale nutrimento (nel bene) e farmaco (nel male) dell’uomo per l’uomo. E l’ingigantirsi, al suo posto, di un “desiderio di punizione”: non una punizione qualsiasi, però: ma una che sia umiliante, degradante, che “lasci il segno” e additi in eterno. A cui si guarda non come l’ultimo rimedio; ma come il primo e l’unico. Sterile e sterilizzante.
I Carabinieri attestano che l’operazione si è svolta “senza generare alcuno shock” sui bambini. Alcuni fra i presenti avrebbero osservato che, invece, “I bambini hanno visto eccome, e in tanti si sono impressionati e hanno pianto”. Nè consta che i genitori abbiano chiesto alla Preside un intervento sulla maestra, o che l’abbiano comunque messa a parte delle loro preoccupazioni. O che, tentato un passo, ne sia venuto un rifiuto, o anche solo chiuso scetticismo dell’Istituzione scolastica. Consta solo che hanno preferito la telecamera nascosta al confronto aperto, magari aspro. Non la riparazione del gesto, ma la vendetta legale sulla persona. Sembra poco, “un giretto agli arresti domiciliari”. Ma è tutto lì, “l’affare di tutti”. In quel potere, retto da norme legittime, recato da provvedimenti legittimi, imposto da legittime autorità, capace di annullare il senso di una vita, l’onore di una persona, la sua dignità umana, a partire da un suo ipotetico errore.
Se lo ius corrigendi di una persona può essere “eccessivo” (e l’accusa, testualmente, questo sostiene), lo ius puniendi dell’Apparato è sempre micidiale. Ma la “giusta punizione” prende il posto della “giusta educazione” solo nelle società avviate alla tirannide. Una maestra è un pò come una zia. Una società che manda le sue zie in galera, anziché in pensione, ha perduto il senso di sé. Non merita più nemmeno di essere dimenticata. Perché lo ha già fatto da sola.