Ci risiamo. Un altro luogo colpito a morte. Di quelli meravigliosi, Barcellona, dove hai passato giorni e ore spensierati mai pensando che un giorno, tra un gelato e una passeggiata in infradito, un’auto impazzita possa ammazzarti giocando a flipper con gli esseri umani.
Ogni volta che succede mi sento così, come se mi avessero tolto un pezzo di carne; un pezzo di ricordi, un ritaglio di luoghi dove desidererei essere ancora. Ogni strage la sento rimbombare dentro di me che sono cresciuta scorazzando per i prati di mezza Europa e che di scorazzare per prati non ho ancora terminato. Sento un insulto alla nostra gioia di vivere, non a quella di occidentali o di europei o di cristiani (termine che per me ha sempre rappresentato poco meno di zero) ma alla mia idea di libertà. Quella per cui puoi sentirti a casa anche in capo al mondo, circondato da persone diverse che rappresentano la tua ricchezza più grande.
Due giorni fa ho avuto di nuovo paura. Non mi abituo a questa nuova Europa, non mi abituo a questo insulto alla mia voglia di vivere. Sento mio padre, un uomo che ha girato il mondo in lungo e in largo su 4 ruote dire “basta, non voglio andare da nessuna parte. Per me finisce qui. Non si può andare più in nessun posto. Me ne sto a casa”. Vederlo “accontentarsi” di una settimana in riva al Po è la più grande sconfitta che sento dentro. Lui, che mi ha portata in auto fino al monte Ararat, che incuriosito mi ha trascinata per le strade più sordide dell’India, e ancora lui che con il suo pullmino Volkswagen ha visto angoli di mondo che chissà se vedrò mai. Lo ha fatto in anni, per giunta, affatto sereni per il pianeta, quando anche uno starnuto poteva far scoppiare una guerra nucleare. Così vedo mia madre, addolorata ogni volta che vede morire giovani vite alla tv. Me la ricordo ancora quando, in lacrime, dopo i fatti del Bataclan, mi disse: “Lo so che è egoista, ma ti prego non partire mai più”. Lei, proprio lei che mi sorride ogni volta che salgo su un aereo.
Ho provato a non aver paura, ma in giorni così mi risento quella ragazzina che vedeva le Torri gemelle crollare alla tv e che non parlò per giorni. Mi ricordo che per anni evitai i McDonald’s, gli aerei, le grandi manifestazioni, le gite con la scuola per paura e per non dare pena a casa. Poi ci fu Madrid e poi Londra e tutto sembrò ancora più vicino. Perché quando hai paura non solo hai paura per te, hai paura anche per gli altri che sono in pena per te. Ecco perché non è stato semplice prende un volo per gli Stati Uniti squadrando in volto ogni passeggero in cerca di non so bene cosa. Tu, si proprio tu che hai l’Epistola sulla tolleranza sul comodino e che hai più amici stranieri che italiani. Ho camminato per New York osservando ogni valigia e sussultando anche per qualche petardo. Oppure mi ricordo ancor a Konya, città santa dell’Islam in Turchia, quando un trolley abbandonato in una moschea mi fece sudare freddo e urlare come un’indemoniata. O le file al metal detector in metropolitana a Nuova Delhi quando la polizia scrutava anche negli orsacchiotti dei bambini e tu lì a pensare “ e se esplodesse qualcosa adesso? Com’è morire con una bomba? Quanto devo essere distante per salvarmi?”.
Giusto qualche mese fa ero ad Amsterdam con un’amica. Giorni spensierati. Attendevamo ad un semaforo il via per poter attraversare la strada: poi, improvvisamente un furgoncino verde ci passò davanti a tutta velocità, spaventando i passanti: un lavoratore in ritardo, forse brillo. Improvvisamente mi soffermai a pensare che quell’episodio, che a casa avrei derubricato in pochi secondi, poteva essere l’ennesima tragedia. Poteva uccidere decine di persone. E la mia mente non aveva collegato affatto quel pericolo ad un possibile attentato. Eppure poteva succedere. Ma c’era il sole, il cielo era limpido e quello era solo un cafone come tanti. Ma quella mattina ho avuto paura, ho sentito la storia, la cronaca, avvolgere anche me fuori dai quattro lati del televisore e sussurrarmi “potrà succedere anche a te”.
E forse sarà così. Sarà così perché ho voglia di vivere. Lo ripeto sempre a mia madre, “prima o poi potrebbe succedermi”, e lei mi guarda, arrabbiata. Non lo faccio per provocarla, lo faccio perché mi sono rotta di avere paura. Lo faccio perché ferma non so stare. Non sopporto più di viaggiare sugli aerei chiudendo gli occhi, di non poter essere serena in metro, di rinunciare a vedere posti che ho sempre sognato perché “sono brutti tempi”. Un tempo ti bastava evitare i luoghi pericolosi, ma adesso i luoghi pericolosi non esistono più. Non c’è differenza tra casa e il pericolo. Ed è questo che ci destabilizza, che ci fa crollare il pavimento sotto i piedi.
Chissenefrega. Ci saranno nuovi aerei, nuove strade insicure, nuovi antri bui in cui avere paura. Non è incoscienza, è voglia di vivere, è… che mi sono rotta di avere paura. E se devo morire, preferisco farlo in un giorno di sole mentre scopro il mondo e non, per citare Depardieu in un vecchio film, “a letto, da vecchia, nel mio piscio”.