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April 7, 2017
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Venticinque anni e un cognome che diceva troppo

Quando la figlia di un boss di 'ndrangheta di Reggio Calabria si toglie la vita

Valter VecelliobyValter Vecellio
Venticinque anni e un cognome che diceva troppo
Time: 3 mins read

Questa è la storia di una ragazza che a 25 anni decide di smettere di sognare.
Una brutta storia, perché finisce male. Molto male.
Questa ragazza infatti decide che l’unica cosa che può fare è scavalcare la ringhiera del balcone di casa sua e lasciarsi andare giù. Non un grido, solo un gemito e alla fine un “volo” di una decina di metri che non lascia scampo, come voleva. Qualche secondo e tutto finisce.

Maria Rita, questo è il nome della ragazza, picchia forte la testa, perdere i sensi e la vita è un tutt’uno.
Nei pochi istanti tra quando scavalca la ringhiera e piomba sulla strada, chissà a cosa avrà pensato. Forse un sentimento di sollievo: finalmente finisce un qualcosa che la tormenta da sempre. Forse il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere, che mai è stato, che avrebbe potuto essere. Ha deciso di non lasciare nulla, non una lettera, un biglietto. Ora dicono che a qualche confidenza si era lasciata andare, con qualche amico; con il senno di poi, raccontano che appariva come in preda di una malinconia senza consolazione… Vai a sapere. Dopo se ne dicono tante. Le fotografie che la ritraggono, anche le più recenti, la mostrano sorridente, allegra, spensierata, felice per essere riuscita a laurearsi a pieni voti, entusiasta di quei soggiorni a Bruxelles e a Francoforte, entrambi viaggi di istruzione alla sede della Banca Centrale e agli uffici della Commissione Europea.
Una maschera? Vai a sapere.

Come mai Maria Rita ora è poco più di un “fagottino” sul selciato, un esile corpo senza vita? La spiegazione è in quello che Maria Rita era e non voleva essere. In quello che ha cercato di essere e sapeva di non poter diventare: una ragazza normale, con i suoi sogni, i suoi amori, la sua vita… No, Maria Rita non era una ragazza come tante. Bella, di una abbagliante bellezza, intelligente, capace, ma anche diversa. Diversa suo malgrado e tutti a Regio Calabria – la sua città – lo sanno che lei non è come le altre, lei ha un cognome pesante: Lo Giudice. Figlia e nipote di boss dell’omonima cosca di ‘ndrangheta. Padre, molti zii, molti cugini, tutti in carcere per mafia. Un cognome pesante, che opprime, schiaccia, inesorabile.

Il padre di Maria Rita è Giovanni Lo Giudice, ritenuto uno degli elementi di spicco dell’omonima cosca, come gli zii Luciano e Nino. Nino lo hanno soprannominato “Il nano”. Da qualche anno ha saltato il fosso, è collaboratore di giustizia, anche se molto controverso. Le sue “rivelazioni” sulla strage di via D’Amelio a Palermo, nella quale rimasero uccisi Paolo Borsellino e la scorta, sono da prendere con le proverbiali molle. Negli anni ’90 i Logiudice sono stati al centro di una sanguinosa faida: Maria Rita ha appena due anni nel 1994, quando la moglie di Pietro Lo Giudice, Angela Costantino, viene uccisa dai parenti accusata di aver tradito il marito incarcerato a Palmi. Di un’altra zia, Barbara Corvi, moglie di Roberto Lo Giudice, non si hanno più notizie dal 2009.
Maria Rita prova a uscire dal suo ambiente, attraverso lo studio, la cultura. Nel 2016 si laurea in Economia a pieni voti. Chi la conosceva ora racconta che “anche all’università si sentiva emarginata per l’ingombrante cognome”.

Atroce destino, quello dei figli dei boss. O seguono le orme dei genitori e finiscono con il condividerne il destino: morti ammazzati o condannati a pesantissimi ergastoli. Oppure se si vogliono affrancare dalle logiche dei clan, spesso finiscono vittime schiacciate da un peso che risulta insopportabile.
Qualcosa di simile anni fa è accaduto a un’altra ragazza, Rita Atria, figlia del boss mafioso di Partanna, in Sicilia. Nel 1985, quando Rita ha undici anni il padre Vito viene ucciso in un agguato.  Le redini del clan vengono prese dal fratello Nicola, che viene ucciso a sua volta, nel giugno del 1991. La moglie di Nicola, Piera Aiello, presente all’omicidio del marito, decide di vendicarsi e denuncia alla polizia i due assassini, che ha riconosciuto. Qualche mese dopo Rita, che dal fratello aveva raccolto molte intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna, decide di seguire le orme della cognata. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è Paolo Borsellino, all’epoca procuratore di Marsala, al quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera sono fondamentali per arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala.
Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, Rita che si vede crollare in mondo addosso, decide di farla finita. Nello stesso, tragico modo di Maria Rita Logiudice.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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