Sono diverse le forze che si stanno attivando, per distruggere un mondo, quello dell’integrazione tra culture, dell’apertura delle frontiere, della competizione economica fair dove la crescita globale punta a far progredire nel medio e lungo periodo anche i perdenti del breve. L’evidenza dice che così si vuole che sia, da parte di leader politici nazionalisti. Accadimenti, decisioni e orientamenti che si moltiplicano nel continente europeo, anche in paesi allenati dalla storia all’universalismo e al rapporto di convivenza con “gli altri”, lo confermano.
Il riferimento specifico va allo spazio geopolitico centrale del vecchio continente, quello che sino agli anni ‘30 del novecento, fu chiamato Mitteleuropa, dal termine tedesco Mittel, “di mezzo, al centro”.
Il termine, tra fine ottocento e i primi decenni del secolo successivo, soffrì una doppia interpretazione. La prima, nata in ambito tedesco, mirava ad integrare sotto bandiera germanica uno spazio che rendesse invincibile la Prussia e i suoi alleati. La teorizzazione primigenia è del 1915, attraverso il Mitteleuropa di Friedrich Naumann. Avrebbe dato il peggio di sé con il nazional-socialismo di Hitler. Qui interessa la seconda versione del termine, quella che fu, grosso modo, interpretata nello spazio controllato dall’impero asburgico.
Riveste i connotati gloriosi della cultura e dell’arte. Protagonisti filosofia polacca, letteratura d’avanguardia boema, sociologia e studi economici ungheresi, poesia pittura e musica austriache. Convivenza del molteplice e del diverso, ironia e furbizia da vendere, multilinguismo, complessità, un certo qual tono di ordine e bonomia nel misto tra un regno d’ordine (ma meridionale come fu l’Austria rispetto alla Prussia) e il crogiuolo della vasta pianura centro-europea e del complicato pluricosmo balcanico bisognosi di essere regolati e amministrati, salvo implodere.
Fu il mondo di Felix Austria, nel quale veleggiò, in decenni diversi, la letteratura degli Joseph Roth, Stefan e Arnold Zweig, Sándor Márai, Israel Joshua Singer, Arthur Schnitzler, Karl Kraus, Hugo von Fofmannsthal, Elias Canetti, Frank Wedekind. Nel quale fiorirono pittori immensi come Gustav Klimt e Egon Schiele, e musica divina come quella di Gustav Mahler. Fu la Vienna di Secession. del divano di Sigmund Freud, dell’adorazione di Wolfgang Amadeus Mozart e dell’opera in genere.
Nessuno ha mai dubitato che quella ricchezza pazzesca di cultura colori e tonalità, avvenisse grazie alla convivenza e al miscuglio di gruppi etnici e religiosi che includevano, alla rinfusa, protestanti boemi, nobili magiari, cattolici croati lombardi e veneti, slavi di ogni risma, nomadi rom e non solo, genti della Galizia ungaro e rumeniche.

Al censimento del 1910, l’Austria-Ungheria risultava con dodici gruppi etnici: dal 24% di tedeschi e il 20,2% di ungheresi, al 12,6% di cechi, al 10% di polacchi, sino al 2% di italiani e all’1,2% di serbocroati di Bosnia. Si contavano cinque grandi confessioni religiose. I cattolici erano il 91% in Austria e il 23% in Bosnia ed Erzegovina. Gli ortodossi il 43,5% in Bosnia ed Erzegovina e il 2,3% in Austria. Gli ebrei il 4,4% nell’intero impero, i musulmani 32,7% in Bosnia ed Erzegovina, con nessuna presenza in Austria e in Ungheria, contando per l’1,3% nell’intero impero.
Non che fossero tutte rose e fiori. Se l’edificio si sfasciò con la Prima grande guerra (1914-1918), se l’Italia sconfitta di Caporetto riuscì sul Piave, mancava evidentemente nella compagine di popoli assemblata da Vienna e Budapest, il nerbo del riconoscersi patria o comunità di patrie, come avrebbe illustrato con gustosa quanto feroce ironia, Jaroslav Hašek, negli anni venti, nell’incompiuto “Il buon soldato Sc’vèik”. Il personaggio satirico antimilitarista e antimperiale, peraltro, era apparso già nel 1912, con “Dobrý voják Švejk a jiné podivné historky”, Il bravo soldato Švejk e altre strane storie. Lo stupidotto e glorioso Sc’vèik, venditore di improbabili cani, eroe involontario e ultimo fedele esecutore dell’ordine imperiale, con posto sempre pronto al manicomio imperiale, della Mitteleuropa in decomposizione mette in evidenza i consolidati meccanismi di sfruttamento dei ceti superiori sul popolo, la cialtroneria di burocrazia, forze repressive, clero, l’impotenza della casa imperiale, sulla soglia dell’estinzione biologica.
Francesco Giuseppe I sarebbe morto a Schoenbrunn il 21 novembre 1916, dopo sessantott’anni di regno. In molti hanno sostenuto che con lui venisse a morire anche l’idea di universalismo centro-europeo sul quale si basava l’unione tra impero austriaco e regno d’Ungheria. Il trapasso è ben descritto in “Il ponte sulla Drina”, di Ivo Andrić. Un secolo dopo un altro universalismo, democratico e fondato sulla volontà dei popoli, si trova a fare i conti con un’eredità aggrovigliata. L’identità mitteleuropea contemporanea, nel frattempo passata nel tritacarne del comunismo sovietico, mostra ritardi sociali ed economici, mistificazioni storiche e culturali, conflitti religiosi, nazionalismi e tribalismi, che si esprimono dalle piane boeme e ungheresi sino alle valli alpine italiche dove alligna l’indipendentismo becero e razzista delle leghe identitarie lombarda e veneta, per poi tracimare giù per le terre meridionali slave sino al confine turco. Il pendolo della storia, nel nuovo spirito del tempo che va proponendo (in realtà riedizione del vecchio e stantio nazionalismo che ha originato le due guerre civili europee del novecento), batte lo zeitgeist dei nazional-populismi e delle restrizioni allo sviluppo umano proposto dall’era delle libertà post-belliche e post-comuniste.
Proprio come accadde con la fine della ricca e felice stagione della Mitteleuropa, identità e diversità devono essere, secondo diversi governi e forze politiche, gli elementi costitutivi delle politiche interne e internazionali alle quali il nostro tempo deve ispirarsi. Si aggiunga che, nella medesima area geopolitica, come ha confermato l’azione in corso dei servizi italiani contro gli sciagurati kosovari che volevano far saltare in aria il ponte di Rialto a Venezia, l’integralismo islamista non solo è presente nei Balcani, ma permea strati di popolazione di fede islamica in movimento verso l’Europa centrale da Albania, Bosnia, Macedonia, Kosovo, animati da spirito di rivincita e jihadismo. Il loro linguaggio truculento, assume derive pubblicitarie a sfondo culinario, come nel video caricato in YouTube dall’imam Zeqirja Kirja Qazimi, dieci anni di prigione kosovara sul gobbo per proselitismo in favore di Isis: “Il sangue degli infedeli è la nostra bevanda preferita”. Tra parentesi, la piaga dello stato/non stato Kosovo (povertà, disoccupazione, corruzione, costi enormi per il bilancio Onu e Ue per il mantenimento dell’ordine pubblico, neppure 2 milioni di abitanti ma 320 foreign fighter – 130 morti, 120 rientrati, 70 combattenti – 40 dei quali donne), che rifiuta ogni dialogo con Belgrado e intende espropriargli qualunque proprietà detenga ancora in Kosovo, è l’ennesimo donativo degli Stati Uniti agli alleati europei, violentando, in questo caso, un millennio di storia della Serbia.

La quale Serbia va al voto presidenziale anticipato domenica 2 aprile, con un candidato europeista forte, sembra, dell’appoggio popolare, Aleksandar Vucic, che dovrà in ogni caso vedersela con il radicato nazionalismo grande serbo umiliato nello scontro che l’ultimo presidente jugoslavo volle tra i popoli balcanici, poi con l’occidente, sino al drammatico epilogo della frattura col Kosovo, cuore della memoria culturale e religiosa serba.
Non dovesse farcela Vucic, salterebbe l’intera impalcatura che l’UE sta provando generosamente a edificare per il lato sud dell’ex Mitteleuropa, e si aprirebbero nuovi spazi al ruolo russo verso i “fratelli” serbi. Il nazionalismo catto-croato troverebbe fiato per rilanciare il mito identitario, cominciando dalla riabilitazione del fascista Ante Pavelic, attivo collaboratore della shoah. Nella Bosnia ed Erzegovina dal sicuro controllo musulmano moderato, la questione del governo si porrebbe in modo nuovo, vista la capacità di infiltrazione russa nella regione e il ruolo di Milorad Dodik, capo russofilo piuttosto duro della minoranza serba di Bosnia. In Montenegro, pezzo tra i più belli dell’antico versante mitteleuropeo degli slavi del sud, si riaprirebbe con toni ben più accesi lo scontro tra le parti in lotta per il potere, per ora sedato dopo il fallito colpo di stato, attribuito, tanto per cambiare, all’opera dei servizi russi. In Macedonia, si è senza vero governo, da quando presidente e primo ministro si ritrovano sotto accusa per corruzione e comunque rigettati sia dall’opposizione politica che dalla minoranza albanese.
Nella fibrillazione strutturale della frontiera balcanica post-jugoslava, viene percepita come minaccia la pressione culturale e demografica delle immigrazioni, in particolare quelle provenienti dai paesi di fede islamica Siria, Iraq e Afghanistan, realtà belliche create dagli azzardi americani. Il cancelliere austriaco Christina Kern, socialdemocratico, ha dichiarato di essere pronto a informare Bruxelles di non poter realizzare l’accoglienza dei circa duemila rifugiati concordati con la Commissione Europea. Si noti che sul tetto dei 27.000 rifugiati, in arrivo attraverso Italia e Grecia, da collocare, non risulta che Vienna ne abbia sinora preso alcuno. Si tratta di decisione fuori dalla legalità dell’Unione, divisiva sia all’interno del partito socialista al quale appartiene il primo ministro, che dell’alleato democristiano.
Anche più contundente, la posizione assunta dai cosiddetti quattro di Visegrad: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria (a Visegrad, villaggio ungherese, fu concordato, nel 1991, l’accordo regionale di collaborazione in vista dell’integrazione nell’Ue). Il 28 marzo i primi ministri Bohuslav Sobotka, Viktor Orban, Beata Szydlo e Robert Fico, da Varsavia confermano di rifiutare “imposizioni” della Ue in fatto di politiche di immigrazione. Ribadiscono che vogliono il denaro dei fondi di sostegno Ue, ma non hanno nessuna intenzione di spenderli per l’accoglienza dei rifugiati. Nell’Ungheria del nazional-populista Orbán (sì, la stessa Ungheria dalla quale 60 anni fa decine di migliaia di ungheresi in fuga venivano accolti dall’occidente europeo) contestualmente inizia a funzionare la nuova norma che dispone arresto e internamento in campi prossimi alla Serbia, di chiunque risulti in stato di “clandestinità”. L’Ungheria ha, al confine con la Serbia, una doppia serie di fili spinati, guardie armate, sensori elettronici antiuomo ogni 15 cm.
Di fronte al fatto che diversi paesi dell’Europa centro-orientale sembrano voler somigliare più alla nuova America trumpiana che a quella definita dai trattati tra europei volontariamente sottoscritti e a quella concordata nella Dichiarazione di Roma appena una settimana fa, qui interessa la divaricazione di certi comportamenti con lo spirito della Mitteleuropa. In un’epoca in cui nazioni intere tornano a chiudersi a riccio, merita ricordare l’amalgama umano e culturale dei popoli collocati amministrativamente nell’unione tra impero d’Austria e regno d’Ungheria. Era espressione di una visione inclusiva, non razzista ed esclusiva come quella proposta ad inizio novecento dai tedeschi verso slavi e polacchi. E’ vero che quel mosaico di popoli non bastò a salvare l’impero con due corone due capitali e due parlamenti distinti, superato dai tempi e dall’irrompere della questione nazionale. E’ anche vero che quell’esperienza ebbe fattori positivi, e i popoli che ne furono protagonisti non dovrebbero dimenticarlo.