Due Fallaci per un’Italia a metà. L’Oriana, come la chiamava la sua Toscana nel cui capoluogo è stato da poco istituito un fondo pubblico a suo nome, non era una donna con cui era facile avere a che fare. Lo riferiscono da tempo ormai i suoi collaboratori, i suoi familiari (al cui interno si è creato nel recente passato un forte contrasto sulla sua eredità poi risolto dalla magistratura) e i colleghi, con i quali ha condiviso, restando sempre un passo più in là, redazioni e pezzi oscuri di storia. I suoi rapporti più intensi erano anche quelli più devastanti e con più strascichi rancorosi. Stima, rabbia, amicizia e polemiche riempivano chi condivideva un tratto di vita con lei per ragioni private o professionali.

Sin dal tragico attentato, che colpì quelle che una volta erano le torri più alte d’Occidente a New York nel 2001, e a causa del quale il mondo intero sino a oggi viene trascinato in un conflitto combattuto sotto diverse forme (alcune di esse non visibili o non tradizionali), il furore e la rabbia di Oriana Fallaci si sono abbattuti, spesso indistintamente e certo opinatamente, sull’Islam e la religione musulmana tutta. Questo ha fatto, sì altrettanto immeritatamente, che si riscrivesse quasi per intero il senso e il valore del suo lavoro giornalistico e di autrice, contribuendo a spaccare ancora di più se possibile quest’Italia del bianco e nero. Una rabbia in quelle giornate subito successive alla tragedia consapevole e condivisibile che poi si è trasformata in altro. In fondo le sue stesse parole riferivano di “una rabbia che elimina ogni distacco.”
Le verità sulla morte di Pasolini. Avevamo già percorso qui il rapporto che legava Pier Paolo Pasolini alla Fallaci in particolar modo con la città di New York. Il suo profondo e controverso legame con il poeta e regista friulano, risucchiato dalla Capitale italiana e dal Paese tutto 41 anni fa, si collega strettamente alle dinamiche e alle ragioni inerenti alla tragica e violenta aggressione sfociata poi in morte dello scrittore. Da più parti, non ultimo dalla stessa corte di primo grado che pur riconoscendo nelle more del processo contro Giuseppe Pelosi il famoso concorso di ignoti, cancellato poi nei gradi successivi, aveva ritenuto gli articoli de L’Europeo, e soprattutto quelli di Oriana Fallaci, in qualche modo privi di «serio contributo probatorio alla ricostruzione della verità». E’ indubbio che in quella lunga contro-inchiesta da lei e dai suoi colleghi condotta contemporaneamente a quella inquirente per diverse settimane, non tutto potesse essere considerato valido. Ma molti dei fatti di quella notte dalla Fallaci fatti emergere, e la contro-inchiesta del settimanale svolta sul modo di indagare di allora hanno ricevuto, scorrendo le pagine delle ultime indagini archiviate nel 2015 una puntuale conferma. Poiché spesso ci si accontenta delle poche righe di agenzia sui fatti acclarati è bene chiarire che appunto così non è. Le fonti nel lavoro di ricostruzione alternativa della Fallaci e dei suoi colleghi non sono state tutte anonime come nel caso del “testimone misterioso” di cui per dovere professionale, cioè quello di proteggere la fonte che glielo aveva chiesto non ha mai rivelato nome e cognome. Volontà, la sua, ribadita più volte anche in una delle ultime interviste da lei rilasciate al riguardo su La Stampa il 12 maggio del 2005. Anche l’ottimo presidente di quella prima corte, Alfredo Carlo Moro, che non si fece gabbare dal giovane Pelosi al tempo, né dalle “dimenticanze” dei periti legali, né tanto meno dalla tracotanza e stravaganza, per usare un eufemismo, del collegio difensivo dell’allora minorenne, ebbe nulla da ridire sul fatto che uno dei testimoni sentiti dalla Fallaci, tale Gianfranco Sotgiu, il cui nome la giornalista invece fece sullo stesso articolo per cui fu incriminata (“crimine” quello di reticenza da cui fu amnistiata solo nel 1981) aveva riferito fatti circostanziati e precisi. Fatti che, rintracciato lo stesso Sotgiu poi nel 2011, nel pieno delle indagini preliminari, lo stesso ha confermato nuovamente agli inquirenti con il timore forte e immutato che aveva denunciato alla giornalista 36 anni prima:
«In tale circostanza udivo nitidamente che questo giovane ragazzo proferiva le testuali parole al suo interlocutore “Mi raccomando ho un appuntamento con Pasolini fatevi trovare lì”».
La circostanza di cui conferma i particolari Sotgiu è quella riferita nella sua testimonianza alla Fallaci al tempo:
«Fu giovedì pomeriggio, verso le quattro o le quattro e mezzo. Giovedì 30 ottobre. Fu al bar Grande Italia, in piazza Esedra. Nel bar ci sono due telefoni a gettone, uno per le chiamate interurbane. Io ero entrato per cercare un numero nelle pagine gialle. […] Le Pagine Gialle stavano sotto l’apparecchio delle interurbane, quel ragazzo stava te- lefonando dall’apparecchio accanto. Non mi ricordo tutto ciò che diceva ma ricordo queste parole: «va bene, mi fac- cio portare al posto dove sono già stato. Se c’è solo da me- nargli ci sto, sennò lasciamo perde». E dopo un po’ disse: «Aò, me raccomando… Solo pe’ un po’ de botte e basta». E poi disse: «Ah senti. Me servirebbe un po’ de soldi». E poi disse: «Eh no, che faccio. Aspetto no a sabato pe’ un po’ de soldi?». E poi: «Vabbè, t’aspetto qui sotto i portici, se poi venire in piazza Esedra sotto il cinema Moderno». Attaccò il ricevitore, uscì, e quasi subito tornò. […] Fu una telefonata breve. Disse: «Pronto, me chiami Franz». Poi disse […]: «Senti, ci ho ripensato. Vorrei andare al cinema e se è possibile ti aspetto alle otto, otto e mezzo. Se vieni a quell’ora». E l’ultima parola che disse prima di attaccare fu: «Aò, me raccomando. Porta il dollaro».
Nel verbale del 5 aprile del 2011 consegnato alla storia investigativa il testimone non anonimo della Fallaci conferma tutto ciò che sentì la sera del 30 ottobre. Questo a fronte di ciò che i verbali di allora, al contrario, riferivano: e cioè che Sotgiu non si poté ahimé rintracciare… Il resoconto, invece, non si può negarlo, va a incastrarsi con l’intento che venne messo poi in atto la notte del 1 novembre 1975 di tendere un agguato allo scrittore andando a cancellare insieme ad altre cose la favola dell’incontro casuale alla stazione Termini che però ha costituito l’ossatura di quel processo. Ma non fu solo questo già fondamentale elemento a caratterizzare quella importante contro inchiesta. La presenza di due motociclisti (come l’omonimo titolo di un altro articolo su L’Europeo aveva rivelato) che ormai la storia investigativa di quel “fattaccio” ha confermato, vanno a identificarsi con i fratelli Borsellino, due ex balordi della piccola malavita romana utilizzabili e utilizzati. Il numero preciso di 3 persone che materialmente hanno messo fine alla vita del poeta (contornati e supportati da molte più persone); la scomparsa certa di elementi fondamentali che l’articolo “I sei errori della polizia” aveva riferito il 21 novembre del 1975 e che con le nuove carte si possono ora meglio identificare; la presenza di Mastini (il primo riferimento in questa storia a Johnny della cartolina è sempre a cura della contro inchiesta), la storia dell’anello di Pelosi, il circolo monarchico del Tiburtino, teatro di parte della vicenda e i suoi “avventori”, la tecnica di aggressione rintracciata dagli stessi giornalisti de L’Europeo, ricondicibile alla prima fase violenta dell’agguato di quella notte. Una lunga lista. Sui fascisti, il cui ruolo è rientrato tra i sospetti della giornalista, c’è un grande equivoco. Mai nei resoconti giornalistici di contro inchiesta la Fallaci o i suoi colleghi ne hanno avanzato il ruolo. Quando l’Oriana chiese a gran voce ad Antonio Padellaro di scrivere su Il Corriere per il quale lavorava al tempo che erano stati i fascisti, lo fece con un atto di convinzione e protesta e forse anche perché in possesso di informazioni provenienti da sue fonti, ma da giornalista in quel momento, e anche successivamente fino a fine inchiesta, non aveva elementi sufficienti per muovere anche solo una accusa. L’unico elemento tirato fuori da lei in quel senso erano le catene. E di segni di catene in verità ci sono e ci sono sempre stati sul corpo di Pasolini, sono visibili, ma nessun perito né nessun magistrato o inquirente che ha rivisto in qualche modo la storia lo ha verificato. Eppure c’erano. Ci sono. Nessun inganno dunque da parte della giornalista in quei giorni già depistati e contorti, ma lo stesso, a distanza di 41 anni, nonostante tutto ciò che è emerso e i riferimenti ormai inconfutabili di parte della sua inchiesta i quali confermano molte cose su quel massacro, si continua a stracciare il lavoro svolto dalla Fallaci come fosse carta sporca.
La “rivelazione” di Nino Marazzita. Lo scorso 21 ottobre in una intervista su “Libero”, l’avvocato penalista protagonista di molti processi dell’Italia repubblicana, e anche più recente, ha fatto alcune rivelazioni che riguardano proprio il caso Pasolini. Al netto delle affermazioni di presunzione tanto care a questa Italia per cui a detta sua non si arriverà mai alla verità, Marazzita butta lì una frase che fa eco solo quando l’intervista la riprende Dagospia qualche giorno dopo : l’avvocato Rocco Mangia difensore del ragazzo di allora, Pino Pelosi, avrebbe ricevuto 50 milioni di lire di allora dalla Dc per occuparsi del caso. Una rivelazione all’avvocato riferita dallo stesso Mangia anni fa (quando non si sa, non è indicato). Mangia, difensore poi della criminalità organizzata e dei neo fascisti, il quale rimase al fianco di Pelosi almeno sino al 2000, è deceduto per quanto si sa nel 2012 quando le indagini della procura erano attive. Perché parlarne adesso? E’ una rivelazione vera o un ‘pour parler’? Di fatto molte sono le cose che a voler scavare e come è anche stato scritto hanno visto protagonista questo avvocato e che hanno contribuito a far sì che il processo andasse come è andato. Corroborando il valore di queste tardive affermazioni, a indagini chiuse. Molte infatti sono state le manipolazioni sulle carte, sulle foto, le interviste di allora a Pelosi da Mangia gestite. Eppure Marazzita solo oggi nel 2016 ci regala questa chicca. Strano.
Il Fondo pubblico per la ricerca istituito a Firenze. “La creazione di un fondo pubblico nella città natale della scrittrice era nell’aria sin dalla morte quando la regione Toscana mi cercò per propormi di aderire alla sua istituzione. Non se ne fece più niente, ma cinque anni fa poi ripresi i contatti siamo andati avanti. Il “Fondo Oriana Fallaci” presso il Palazzo del Consiglio regionale della Toscana sarà aperto a tutti quanti tra studenti, giornalisti e ricercatori o cittadini curiosi vogliano approfondire i suoi scritti. Al momento infatti per quelli già esistenti, il Boston University Oriana Fallaci Collection e quello presente presso Rizzoli Corriere della Sera a Milano, in parte ancora questo in fase di catalogazione, è abbastanza complicato accedervi facendo normale richiesta. A Firenze si sta finalizzando proprio la sala adibita alla ricerca dei suoi scritti. Maggiormente si tratta di scritti che si riferiscono alla città, a quanto da lei svolto in merito e al rapporto che Oriana aveva con la stessa”. A parlare con la VNY è Edoardo Perazzi nipote ed erede della scrittrice, curatore del suo lascito. A New York nel posto che l’Oriana credeva più sicuro al mondo prima del 2001 nel reticolato dell’Upper East Side c’è ancora il suo rifugio, la sua casa anche se le “cicale” che la disturbavano, come lei le chiamava per riferirsi all’Italia e che pure erano e sono presenti anche lì, lei non riuscì a vederle.
Simona Zecchi, giornalista residente a Roma, è l’autrice di Pasolini Massacro di un poeta (Ponte alle Grazie, 2015)