Una cascata di massi ai lati della strada, crepe sull’asfalto, un silenzio compresso, la luce dell’alba che svela lentamente il profilo dei monti. Illica, finalmente. La raggiungo dopo un periplo estenuante a cavallo dell’Appennino, lasciandomi alle spalle Amatrice, luogo simbolo del sisma che ha straziato l’Italia centrale. Se l’epicentro ha un cuore, devi cercarlo qui, a pochi chilometri da Accumoli, in questa conca di velluto verde incassata tra i selvaggi Monti della Laga. I soccorsi ci sono arrivati a rilento, quella maledetta notte del 24 agosto. Il villaggio, a 870 metri d’altitudine, ha subìto la sorte delle piccole frazioni che fanno da corona alla città rinomata per la pasta e le sue cento chiese.
Spengo il motore. Rimango per un attimo come stordita. M’assale un’ingenua paura di fare rumore, di alterare uno stato di quiete che so essere solo apparente. La montagna ha la febbre. La terra trema ancora. Quaranta minuti prima, l’ultima scossa. Magnitudo 4.8. Passo a fianco della tendopoli allestita in poche ore dalla Protezione Civile in un grande spiazzo all’ingresso del paese. Nessuno riesce a chiudere occhio. M’incammino per la via principale, quella che dà accesso al vecchio borgo. Un borgo che non c’è più.

Illica appartiene ai suoi prati. Vi si adagia sinuosa, avviluppata e protetta da boschi di larici. Boschi immensi, che ora sembrano cullare solo le macerie. Illica idillica. Gioco con le parole perché quello che vedo fa male. I crolli sono ovunque, i detriti invadono i vicoli, le case di pietra hanno lasciato il posto a un bizzarro groviglio di lamiere, calcinacci, tavole di legno, cavi elettrici, brandelli di mobili, di vestiti, di stoviglie. Quotidianità dispersa, sbriciolata. Illica idillica, mi ripeto mentre scatto qualche foto a un portale della fine del ’700. E idillica lo deve essere stata davvero. Idillica e gaia. È un curioso manifesto a confermarlo. Scritto a mano con un pennarello a inchiostro marrone, ricopre quasi interamente un cartello da cantiere affisso a un palo della luce rimasto miracolosamente in piedi. Recita così: “È vietato giocare a palla, saltare sul fieno, salire sugli alberi, ridere a crepapelle, sporcarsi, giocare con l’acqua, urlare di gioia, andare nelle pozzanghere”. E sotto – per conquistare i monelli? –, un grande cuore preceduto da una I all’inglese e seguito da Illica: io voglio bene a Illica.
Torno indietro. Mi fermo davanti a un ammasso di detriti. Due Vigili del Fuoco vi stanno rovistando dentro. Cosa cercano? Un passaporto. “È della moglie di mio cugino” mi spiega un ragazzino che assiste alla scena. “Serve per l’identificazione. Sennò si allungano le pratiche per far rimpatriare la salma”.
Matteo ha 17 anni. Studia da cuoco. Sottile, scuro di occhi e di capelli, la voce ferma, sembra già grande. O forse è il dramma che sta vivendo a renderlo così. Il terremoto gli ha portato via la casa dei nonni, lo zio e la moglie del cugino, Ana, 27 anni, spagnola di Viznar, vicino Granada.
“A Illica ho trascorso tutte le mie estati. Era un paese pieno di giovani, di gioia” racconta. “Io sono stato graziato, così come i miei genitori, mio fratello con un bambino di due mesi, mia sorella con due bambini, uno di sei anni, uno di quindici giorni. Se la sera prima non fossimo partiti per Roma sarebbe stata una strage. Non appena abbiamo saputo che l’epicentro era in questa zona ci siamo fiondati e abbiamo trovato una scena orribile. Questa casa è stata una delle prime, se non la prima a crollare. I piani si sono schiacciati uno sull’altro, fortunatamente sotto si è formata una sorta di bolla e grazie a questo siamo riusciti a tirare fuori mia zia, mio cugino e mia cugina, una bambina di sei anni. Purtroppo per gli altri non c’è stato niente da fare”.
“Ana era una di noi. Una ragazza solare, speciale”.

Alessandra Cappellanti, una cinquantenne dal volto dolce, i capelli venati di rosso, risiede a Illica da anni. La sua non era solo una dimora estiva. La incontro poco più giù, davanti alla vecchia scuola, ora sede del museo della civiltà contadina. Una struttura in cemento che, a parte qualche crepa, non sembra aver riportato grossi danni. “Casa sta là – dice, guardando verso il paese – in mezzo ad altre che sono crollate. Non è venuta giù ma è inagibile. I pompieri mi hanno detto che il pavimento si sta alzando, le scale si muovono tutte. Non ho più niente, pure la macchina è rimasta sotto le macerie. Sarà dura iniziare daccapo, però che dobbiamo fare… Non possiamo abbatterci. Ora dormiamo nelle tende, cerchiamo di aiutarci tutti quanti”. Alessandra ha due figlie, di diciassette e ventiquattro anni, entrambe sopravvissute. “Quella notte la più piccola si era attardata a parlare proprio qui, sulle scalette della vecchia scuola. È il ritrovo dei giovani, come in passato lo era per noi. Le mitiche scalette… Quando hanno sentito il boato i ragazzi si sono abbracciati. Illica si disintegrava davanti ai loro occhi. Sono rimasti scioccati. Io e la più grande stavamo dormendo, non so come abbiamo fatto a uscire fuori. La casa di mia madre invece non esiste più. Il tetto è sprofondato. I miei nipoti sono riusciti a salvare il figlio di quattro anni, l’hanno tirato fuori da un buco, sono passati sopra le macerie con il bambino in braccio, al buio, scalzi. Hanno salvato mio fratello, mia madre di ottantuno anni, e poi sono andati in giro, hanno estratto la ragazza spagnola. Era già morta, purtroppo”.
Ciò che si percepisce parlando con questa gente è un forte senso di comunità, che nemmeno le vecchie ruggini, non inusuali in realtà così piccole, sono riuscite a scalfire.
“Giusta sensazione” mi assicura Piera Savarese, scampata al terremoto perché a Roma per il funerale del suocero. “In passato ogni famiglia aiutava l’altra a tirar su casa e insieme hanno edificato il borgo. Alcune case sono state ricostruite nel corso degli anni, la mia era del 1927. Per questo io dico: tutti insieme ricostruiremo Illica”. “Certo che la ricostruiremo” interviene Maria Pia Rossetti, la commozione trattenuta dietro gli occhiali da sole. “In legno e piena di rose. Più bella e più viva di prima”.
Forza delle donne, penso avviandomi verso l’auto. Le loro facce composte, le loro voci me le porto dentro mentre riprendo la strada verso valle, alla volta di Fonte del Campo e Accumoli.

Se a Illica il campanile della chiesa di San Paolo Apostolo ha retto all’urto, quello della chiesa di San Francesco, ad Accumoli, si è schiantato sul tetto di una palazzina facendola crollare. Un’intera famiglia cancellata in pochi secondi. Una giovane coppia e i due figli, di sette anni e otto mesi. Del paese, un’isola montanara in bilico fra Marche, Abruzzo e Umbria, non restano che sagome informi. E squarci, scricchiolii, muri che grondano polvere. E un senso di smarrimento, di oscura impotenza.
La notte del terremoto, come tutti a Roma, mi ero svegliata con la sensazione che il letto ondeggiasse. Ecco, ci risiamo. Ancora L’Aquila, un’altra L’Aquila, avevo detto a Marco, il mio compagno. Il pensiero al sisma che nel 2009 aveva raso al suolo il capoluogo abruzzese appariva più che scontato. Da qualche parte, chissà dove, si stava ripetendo la stessa tragedia. E, ironia della sorte, quasi negli stessi minuti. Un’ora dopo l’avremmo saputo.
Ad Amatrice c’eravamo capitati un paio di anni prima, in tempo per vedere integra la quattrocentesca chiesa di Sant’Agostino, percorrere Corso Umberto e passare di fronte allo storico Hotel Roma, celebre per la sua amatriciana, tra le cui macerie, al mio arrivo in città, si continua a scavare per cercare i dispersi. Non è facile capacitarsi di quello che si vede. È il paesaggio dell’emergenza. Ma non quella dei primi istanti, del buio pesto, dei morti e dei sepolti vivi, dei primi volontari, dei parenti che accorrono, che si dànnano tra i calcinacci per inseguire un lamento, un respiro.
È il paesaggio colorato, delle divise. Dell’emergenza gestita. Vigili del Fuoco, Carabinieri, poliziotti, militari dell’Esercito, guardie di finanza, guardie forestali, unità cinofile, volontari della Croce Rossa, dell’Ordine di Malta, della Protezione civile, dell’ENPA, della Federazione islamica del Lazio. E monaci ortodossi, dalle lunghe barbe.
Un esercito di uomini e di donne che oscilla avanti e indietro, che si è appropriato delle vie, dei giardini, degli spazi urbani adiacenti la zona rossa e li ha trasformati in tendopoli, cucine da campo, infermerie, punti di ristoro. Parola d’ordine: accogliere. Il prima possibile, nel miglior modo possibile. Il palazzetto dello sport, una struttura moderna — legno vetri e cemento — è diventato, anch’esso, un immenso dormitorio, una sterminata distesa di brande, una attaccata all’altra, gli spalti ricolmi fino al soffitto di generi alimentari, coperte, vestiario, pannolini per bambini. Gli abitanti, i sopravvissuti — scampati per un soffio, estratti appena in tempo, salvi per miracolo — ci gravitano dentro come marziani. Li riconosci subito. Parlano tra di loro. Poche parole smozzicate, cenni. Alcuni si guardano intorno, spaesati. Altri siedono, in silenzio.
Lungo il muretto di cinta del parco giochi comunale, ora accampamento di volontari più o meno istituzionalizzati, si snoda un lungo murale dedicato alla città dell’amatriciana. Scorci, monumenti, scene legate al folclore locale sono resi in uno stile essenziale. Vi predominano il verde e il blu. Al centro della sequenza, l’emblema araldico del comune. Lo osservo per un po’. “C’è rimasto ‘o stemma” mi fa un uomo sui cinquant’anni passandomi accanto. Sorride amaro.
Intanto cala la sera. E Amatrice si accende come un set cinematografico. La chiesa di Sant’Agostino fa da quinta alle dirette della stampa internazionale, assiepata da giorni all’imbocco di Corso Umberto. Al di là è zona rossa, regno incontrastato dei Vigili del Fuoco. Inderogabilmente off limits. I riflettori illuminano le case accartocciate. Iniziano i telegiornali. Notizie flash. Quanti morti, quanti dispersi, quanti recuperati. E poi, messe in fila sull’altare mediatico, le testimonianze dei sopravvissuti, personalissime ricostruzioni di una notte di fine estate che ha sfregiato per sempre la fisionomia di quelle terre.
“Ci sono più giornalisti che abitanti” commenta a mezza voce un pompiere a fine turno, le braccia incrociate. “Ti crolla casa. Come fai a raccontare come ti senti, cosa provi? La casa è il nostro rifugio dal mondo”.
Ha ragione. Ora il mondo può entrare all’interno di quei palazzi scarnificati. Spiarci dentro.
Mi chiedo quando Amatrice verrà restituita alla sua gente. Troppa concitazione impedisce di riflettere sull’intima portata di una tragedia incommensurabile. Serve silenzio. Il giusto silenzio.
Mi giro al richiamo di un rombo familiare. È Nina, il ténéré della Yamaha che io e il mio compagno abbiamo acquistato di seconda mano tre anni fa. L’abbiamo battezzata così. Marco mi viene incontro, zuppo di polvere e di sudore. La chiusura del ponte Tre Occhi, seriamente danneggiato dopo la forte scossa del mattino, aveva privato la città del suo accesso diretto, quello da sud. Per raggiungerla bisognava rassegnarsi a una circumnavigazione d’alta quota attraverso la riserva naturale del lago di Campotosto.
Avevamo convenuto che la moto sarebbe stata il mezzo ideale per muoverci con relativa facilità sulle strade di montagna. Ma ancora non sapevamo quanto si sarebbe rivelata utile. Di più: provvidenziale.
L’avremmo scoperto il pomeriggio dopo, nei pressi del centro d’accoglienza gestito dal Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta (CISOM), ritrovandoci in mezzo a una sorta di strano raduno di moto da enduro e a un via vai concitato di centauri dalle tute multicolori.
“Ma chi sono?” chiedo a uno dei volontari del Corpo.
“Questi qua? Questi sono i veri volontari. Io ho una struttura alle spalle, un’organizzazione. Loro no. Loro sono arrivati nelle ore successive al terremoto e si sono messi a disposizione”.
“E che fanno?”
“Portano i medicinali nelle frazioni sperdute, quelle rimaste isolate, dove i mezzi della Protezione Civile arrivano a fatica. Stanno facendo un lavoro straordinario”.
Andiamo a conoscerli. Ugo Filosa, campano di Castellamare di Stabia, campione di moto rally e promotore di eventi motoristici, coordina gli spostamenti. È l’anima del gruppo. Un fiume in piena. Quarantacinque anni, un faccione sorridente, non smette di correre su e giù, mettendo crocette su un foglio. Poche raccomandazioni e le micro-truppe sellate sgassano alla volta dei monti, gli zaini stracolmi dei carichi della solidarietà: farmaci, acqua, cibo, coperte, pannolini. Ma anche giocattoli e pupazzi di peluche. Che non possono mancare, non devono mancare.
Oscar Vici, biker di Senigallia ci spiega com’è nato tutto. “Avevamo in programma di fare un tour, organizzato da Ugo, proprio in questa zona. Poi è successo quello che è successo. Non ce la siamo sentita. Ugo ha lanciato l’idea: partire comunque, ma per andare ad aiutare. Ed eccoci qua”.
Giunge una segnalazione, una richiesta di intervento per Torrita, a cinque chilometri da Amatrice.
“Veniamo con voi?”
“Certo”.
Nina non ha le gomme tassellate ma se la cava alla grande fra ingombri di macerie, guadi, improbabili varchi in mezzo agli alberi, lanciandosi in arditi, acrobatici zig-zag. Più che un percorso alternativo, un saliscendi a ostacoli che Ugo ha ricavato, o meglio improvvisato, seguendo le indicazioni degli anziani. Qualche spinta ed è fatta. In una ventina di minuti siamo fuori, sulla strada buona. Il gruppo si ricompatta. Tra gli enduristi ce n’è uno che ha perso casa e amici. La moto l’ha disseppellita, facendola resuscitare. E l’ha messa al servizio della sua gente.

L’aria sembra più sottile qui, la luce più forte. È come se avessimo varcato una frontiera e fossimo entrati in un mondo nuovo, di colpo restituito alla normalità. Il paesaggio è fiabesco. Sfrecciamo sopra la diga del lago di Scandarello, maciniamo chilometri senza incontrare nessuno. I monti si chiudono ad anfiteatro. Ci veleggiamo dentro a tutto gas, in un silenzio che pare cristallizzato. Curve e ancora curve, poi le prime case di Torrita, la tendopoli, gli sfollati e la distribuzione di acqua e medicine. Eutirox e insulina accolte come oro.
Quella notte non sarei riuscita a dormire.
Non tanto per le scosse che non si placavano o per i continui scricchiolii che sembrava si annidassero nella campata lignea del palazzetto dello sport. Ma per Valeria.
L’avevamo incontrata al mattino a pochi passi dalla Basilica di San Francesco, in piena zona rossa. Cercava notizie. Sulla sua casa, completamente rasa al suolo, e sulla famiglia cui aveva affittato un appartamento, che risultava ancora dispersa.
Le notizie gliele diamo noi. Avevamo da poco fotografato quel vicolo, i Vigili del Fuoco che stavano estraendo i corpi.
Valeria ci riassume in poche frasi il suo incubo. Il boato, l’armadio che le cade sopra, il marito che riesce a salvare lei e la figlia di sedici anni, ma non il figlio, di tredici.
Poi, confusamente, comincia a parlare di un portafoglio, di una cassaforte a muro, della borsa con i documenti. Che deve trovare, trovare, trovare.
Non aveva ancora realizzato. Quando avrà quegli oggetti tra le mani, penso, capirà che era altro quello che stava cercando.

“Vuoi vedere la guerra? Allora vai a Villa San Lorenzo” mi aveva detto Oscar, disegnando con poche metafore uno scenario da bombardamento a tappeto. L’invito cadeva su un terreno già fertile. Ci sarei andata comunque da quelle parti. Avevo letto del Santuario della Madonna di Filetta, patrona di Amatrice, e di chiesette rinascimentali, dai preziosi arredi, sparse sulle pendici dei monti.
Partiamo di buonora. In moto, ovviamente. M’infilo la GoPro in tasca, la Canon a tracolla. Il ponte Rosa, nonostante le preoccupazioni di crolli imminenti, sembra ancora reggere. Puntiamo in direzione Sommati. Nina morde la salita, inizia una successione di borghi fantasma. Retrosi, Collecreta, Voceto, Collepagliuca. Poi Prato, Sommati, Sant’Angelo, Faizzone. Gioielli di pietra adagiati sulla pancia dell’Appennino. Non ne rimane un granché. Tutto ciò che non è collassato, mostra crepe e ferite. Fotografo con rabbia. Un misto di rabbia e sconforto.
La botta finale arriva qualche tornante più giù. Oscar aveva azzeccato l’immagine. A Rio e Villa San Lorenzo, due frazioni quasi contigue, è di scena l’Apocalisse. Le case si sono sbriciolate, la strada è un tappeto di polvere color avorio.
Ci avviciniamo a ciò che resta di un’antica cappella, il tetto sfondato, suppellettili e stucchi che si mostrano al cielo. Sulla parete absidale, un ex voto a forma di cuore e un piccolo crocefisso ancora alloggiato nella sua nicchia, trapuntata di crepe. Chiunque potrebbe entrare a rubare e i residenti, i pochi rimasti, lo sanno. “Fanno la ronda la notte e stanno portando i beni in salvo” ci spiega un ragazzo sbucato quasi dal nulla.
Si chiama Gino Allegritti, ha trentasei anni, di professione fotografo. La sua casa, a San Lorenzo, è rimasta in piedi, ma lo studio di Amatrice, al civico 21 di Corso Umberto, si è polverizzato: “ci è crollato sopra un palazzo”.
Si vede subito che è uno in gamba. “Qualche anno fa avevo fatto una mappatura fotografica dei beni contenuti nella chiesa parrocchiale di San Lorenzo. Io e il mio socio avevamo anche realizzato una serie di foto ad altissima risoluzione di tutte le chiese di Amatrice. Milleduecento o giù di lì”. Un lavoro portato avanti nel tempo e che ora, nella ricostruzione, potrebbe rivelarsi utile. “Non so se qualcosa si è salvato. Conservavo gli hard disk in una valigetta di metallo. L’ho comunicato al sindaco, ma mi è stato detto che se c’è pericolo di crolli passano con la ruspa e levano tutto”.
Rimaniamo per un po’ in silenzio, seduti su un muretto che corre lungo una fila di case sventrate.
“Qui la gente veniva per l’amatriciana e restava per quello che vedeva” dice piano.
Ormai è pomeriggio inoltrato, ripercorriamo la strada a ritroso.
Qualcosa continua a sfuggirmi. Sento di aver solo sfiorato lo spirito di questi luoghi.

Sul marciapiede di fronte al palazzetto dello sport, quartier generale del Corpo volontario dei centauri di Amatrice, come ormai mi diverto a chiamarli, è il momento dei saluti. Oscar e Ugo se ne sono già andati. Decidiamo di partire pure noi. Anche Tiziano, un biker di Modena impegnato negli aiuti fin dalle prime ore, è in procinto di farlo. O almeno così sembra. Si è fermato a parlare con un ragazzo alto, occhiali scuri, motociclista a sua volta. Ma lo si intuisce da brandelli di frase. Non indossa la tuta da enduro, non ha fatto la staffetta su e giù per i monti. È uno del posto. Ha trentanove anni, lavora come poliziotto ad Ascoli Piceno. Il giorno prima, in una celebrazione privata, ha detto addio alla sua compagna, Alessandra. Ha sistemato sulla bara un bouquet da sposa. Stavano insieme da dieci anni ma non lo erano nella notte più buia. Lui in servizio nelle Marche, lei ad Amatrice.
Una corsa disperata contro il tempo. La ricerca spasmodica dentro le macerie della sua abitazione. Poi l’arrivo di un carabiniere che lo aiuta a estrarre il corpo. “È morta da sola” dice, ricacciando indietro le lacrime. “È la cosa che mi fa più male. Insieme alle parole che non le ho detto”.
Ci scambiamo i numeri di cellulare e un abbraccio che mi si scolpisce dentro.
Vado a recuperare la macchina. Marco è già in sella. Ci aspettano di nuovo salite e discese. E valichi e gole e curve.
La testa mi ronza, ronzano i pensieri. Provo a tenerli quieti, mi concentro sulla guida. La terra borbotta ancora, continuano le scosse, la strada dà segno di improvvisi cedimenti. Fino a Montereale, che sconfina in Abruzzo, incontriamo solo mezzi militari, impegnati nel ripristino delle vie di comunicazione.
Ora inizieranno, sono già iniziati, i tour delle rovine. Continueranno le polemiche sulla mancata messa in sicurezza degli edifici, le inchieste sulla scuola di Amatrice ristrutturata solo quattro anni fa e già crollata, sul campanile della chiesa di San Francesco di Accumoli, pure restaurato e divenuto in un attimo strumento di morte. Proseguiranno le passerelle dei politici. I defunti riposeranno in pace, i parenti non si daranno pace, i sopravvissuti proveranno a ritrovarla giorno per giorno. Come gli aquilani, gli emiliani e prima di loro i terremotati dell’Irpinia e del Friuli.
Antrodoco, Cittaducale, Rieti. Stiamo tornando a casa. Alle soglie della Sabina ci accoglie un tramonto viola. Corrono le colline tappezzate di uliveti, di vigne gravide d’uva.
L’autunno bussa alle porte. Sento ancora sulla pelle l’abbraccio di Stefano, rivedo i volti di chi ho incontrato, cerco di immaginare quelli di cui ho sentito solo raccontare.
Roma, in lontananza, sterminata e immobile, è un’epifania di luci.
Laura Sudiro, giornalista e autrice di documentari, si occupa soprattutto di archeologia e delle problematiche relative alla tutela e alla salvaguardia dei beni culturali in aree di crisi e colpite da calamità naturali.