Devo ammettere che, in un primo momento, mi ero fatta scoraggiare dall’impresa, all’apparenza titanica, di analizzare l’incredibile molteplicità di simboli e messaggi denigratori e offensivi che abbiamo avuto modo di apprezzare nell’ultima campagna di comunicazione pubblica patrocinata dal nostro amato Ministro Lorenzin in vista del primo Fertility Day di settembre. Campagna peraltro già rimossa dai siti istituzionali, date le ovvie polemiche. Ma poi ho deciso, per divertimento più che per indignazione, di tentare ugualmente una piccola analisi semiotica dell’orrore — è davvero il caso di dirlo — rispetto alle immagini e ai testi scelti per l’iniziativa ministeriale; come se cercassi di scrivere la recensione di un bruttissimo film.
Cominciamo dall’immagine che più velocemente ha fatto il giro del web: una giovane donna vestita di rosso, dall’espressione ammiccante, che appoggia una mano sul ventre mentre con l’altra sorregge una clessidra, posta in evidenza e in primo piano. La didascalia recita: “La bellezza non ha età, la fertilità sì”.

Bastano già la scelta dei colori e delle grandezze (la donna piccola, ovvero piccola nei suoi desideri e progetti, in secondo piano rispetto all’immensità del Tempo) per mettere bene in evidenza il messaggio sotteso: da un lato il rosso, simbolo, nella nostra cultura, di passione, ardore, amore, ma anche, nei vestiti femminili, della prostituzione e della “bellezza”, appunto, richiamata anche nello slogan come valore opposto al colore bianco dominante nella clessidra, simbolo invece di purezza. Qual è il target femminile di questa cartolina? Evidentemente, quella percentuale, speriamo scarsa, di donne che hanno rinunciato alla maternità per non guastarsi la bellezza, non certo per motivi più profondi o più concreti. Percentuale scarsa ma forse non rara, nel dorato mondo di beata inconsapevolezza da cui spesso provengono i nostri governanti. Tra parentesi, tanto per accentuare l’immensa confusione di concetti che trasuda da questa immagine, è l’amore, non la bellezza, che secondo il detto popolare richiamato nello slogan, non ha età; un ulteriore invito alle donne a considerare le proprie aspirazioni, anche sentimentali (per esempio, trovare il partner giusto), come una frivola velleità, tra l’altro ben dipinta nell’espressione, senza alcuna ragione, divertita, della povera modella utilizzata per la foto.
Sarebbero sufficienti questi elementi per bocciare il risultato del manifesto, ma ciò che è davvero vergognoso è che per sottolineare la caducità degli anni fertili, i pubblicitari scelti dal Ministero abbiano deciso di utilizzare una clessidra. Pensiamoci: chiunque abbia mai intrattenuto una qualsiasi conversazione sul tema delicato dell’“orologio biologico” si ricorderà che, almeno nella nostra cultura occidentale, le donne stesse tendono ad associare tale concetto all’immagine di un orologio da polso, e a espressioni verbali come “tic-toc”. Non si tratta di coincidenza o scelta arbitraria, ma di un significato simbolico abbastanza elementare, perché il periodo riproduttivo della donna, scandito dal ticchettio mensile del ciclo, richiama appunto un orologio “a scatti”, più che l’inesorabile, inafferrabile scivolio della sabbia nella clessidra, che scorre fino al suo esaurimento ineluttabile, e che per questo rappresenta da secoli, di nuovo, nella nostra cultura, il concetto vero e proprio della morte. Femmine, dopo gli anni di fertilità la vostra vita finisce: questo dice il primo manifesto del Ministero a chi lo sa leggere a livello consapevole, e purtroppo anche a chi, senza strumenti interpretativi, ne assimilerebbe il messaggio solo a livello inconscio, in un paese dove la donna, da sempre, maternità a parte, è effettivamente considerata ben poco.
Ma per una volta, è davvero il caso di dire che gli uomini riescono a uscire da questa campagna ancora più denigrati e umiliati delle donne, perché la reale punta di diamante tra i manifesti circolati è la cartolina che associa il concetto di infertilità maschile a una buccia di banana (sic), ormai quasi marcita e abbandonata su un marciapiede. E qui davvero, sarebbe impossibile anche solo tentare di addentrarsi nella buia foresta di ignoranza scientifica, pregiudizi e sfottò da caserma e, aggiungerei, anche probabile pruderie bigotta, che nella mente di un pubblicitario senza freni, e poi di un Ministro — della Salute! — approvante, può aver causato una così becera e offensiva associazione tra simbolo e idea.

In questo caso (che ripeto, tradisce un’abissale ignoranza in materia, anche solo a livello di anatomia da terza media), forse con nostalgia dei tempi che furono, vuoi berlusconiani, vuoi mussoliniani, vuoi leghisti, il Ministero avrebbe approvato a cuor leggero, dopo l’equazione simbolica infertilità = morte riservata alle donne, un’ugualmente vergognosa e inesatta associazione concettuale tra infertilità e virilità, riducendo l’uomo non fertile (secondo il Dicastero, anche un po’ impotente) a una buccia, notate bene, di banana (la buccia è la parte che si scarta, e forse qui la nostra ministra diplomata ha avuto un moto audace di darwiniano azzardo). E riuscendo, con queste due cartoline, a offendere in un colpo solo anche quei milioni di cittadini italiani che per età appartengono alla categoria dei “grandi anziani”, ormai lontani dalla vitalità della riproduzione e dalle soddisfazioni del vigore maschile, che pure — e il Ministero della Salute dovrebbe saperlo data la loro numerosità — conducono vite attive e soddisfacenti, coltivando interessi, attività di volontariato, progetti fino allora rimandati, e contribuendo tra l’altro alla cura, crescita ed educazione anche umana e storica dei bambini, in tutte quelle situazioni in cui lo stato italiano non fornisce soluzioni praticabili e adeguate. Ma anche qui, chissà a quali uomini si rivolgeva lo Stato. Forse a quelli, evidentemente compagni ideali del target del manifesto precedente (le donne che non fanno figli per non sciuparsi il girovita), che hanno perso la maschia durezza a causa di superalcolici, sesso non protetto e troppa cocaina, forse anche questi rappresentati tra le nostre Istituzioni in misura maggiore che nel resto della società.
Potrei fermarmi, ma valgono una menzione anche il manifesto, forse strategico per un pubblico di bambine, che invita a “non aspettare la cicogna” (“va bene qualsiasi uccello”, chiosa una satira sui social), e lo spot in stile cromatico “Viva Verdi” che dipinge un paio di scarpine da neonato decorate con i colori nazionali, in un momento storico in cui un governo teoricamente (molto teoricamente) di sinistra, potrebbe per esempio favorire politiche di tutela e integrazione di tutti quei minori, in gran parte stranieri, che ogni anno spariscono nelle statistiche dei racket, anziché incoraggiare più o meno velati messaggi di salvaguardia della razza romana, tanto più vergognosi in quanto rappresentano una facile e ipocrita incetta di voti, presso tutto quel certo bacino di elettori di oggi che “non è razzista” ma, tutto sommato, non disdegna politiche e ideologie nelle quali il bambino italiano, quello mezzo italiano e quello non italiano sono chiaramente distinti.

Chiude la rassegna delle idiozie lo slogan scelto probabilmente per il target anagrafico tra i 20 e i 30 anni, invitati a figliare presto perché è il “modo migliore per essere creativi”: simpatica frecciata a tutto quell’universo professionale che cerca di inventarsi un’occupazione in proprio, gaffe particolarmente infelice e paradossale se si pensa ai “creativi” che sono stati pagati dal nostro Stato, pare profumatamente, per produrre un tale eccellente lavoro.
Un’ultima, doverosa nota la meritano le parole, non solo le immagini, con cui il Ministero ha penosamente cercato di lanciare pubblicamente la campagna, puntando sul concetto di “prestigio della maternità”, di tale gravità e pericolosità psicologica che sono costretta a fermarmi o servirebbe un altro articolo intero perché, come già la letteratura scientifica constata e avverte da decenni nel trattare il narcisismo patologico delle nostre società moderne, sposta la ragione del fare un figlio dal benessere del bambino stesso al piacere e al guadagno sociale del genitore. Ministro Lorenzin, ammetta finalmente di non possedere alcuna competenza per il difficile ruolo che ricopre e si dimetta, perché in un paese normale, lei sarebbe una tirocinante e non un Ministro, e una campagna di comunicazione sociale così pensata, in qualsiasi azienda o associazione, non sarebbe arrivata neanche sulla scrivania del capo; anziché diventare in 24 ore quello che è già stato ribattezzato un epic fail di portata nazionale, e altra fonte di ridicolo sulle nostre povere teste.
Valentina Rebecca Soluri, classe 1981, è laureata in Scienze della Comunicazione e Giornalista Pubblicista dal 2008. Nata e cresciuta a Bologna, dove lavora in un’azienda ICT, coltiva le passioni per la musica, i viaggi, la letteratura, la psicologia.