Il 14 settembre, di fronte alla plenaria del Parlamento Europeo, a Strasburgo, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker presenterà il discorso sullo stato dell’Unione. Si capirà quale indirizzo potrà realisticamente assumere la prossima stagione europea, al netto dell’uscita britannica e della voglia di rilancio espressa a Ventotene, appena prima del nostro tragico terremoto, dai tre grandi dell’Unione: Germania, Francia e Italia. Due giorni dopo, il 16, si riunirà a Bratislava un Consiglio europeo informale, assente la Gran Bretagna. La messa a punto del discorso di Juncker, che come sempre si esprimerà a nome del collegio dei commissari vincolati al giuramento di fedeltà ai trattati dell’Unione, avverrà nel seminario convocato per martedì e mercoledì 30 e 31. Agenda e contenuti della riunione dei 27 capi di stato e di governo, saranno preparati dal presidente Donald Tusk, impegnato in questi giorni in incontri individuali nelle capitali dei paesi membri. In parallelo anche Angela Merkel sta facendo la spola tra le capitali. Nei prossimi venti giorni non si deciderà evidentemente il destino delle istituzioni comuni, ma si metterà una grossa ipoteca sul percorso che intraprenderanno.
Il cambio di marcia UE non riguarderà soltanto i paesi membri e i paesi europei che stanno facendo la coda per entrare nella famiglia continentale, ma l’intero sistema internazionale. Se l’Unione regredisse, si dimostrerebbe che risulta ancora impossibile, nella storia, un patto federativo tra stati non fondato sulla violenza e la guerra (come è accaduto, ad esempio, nel caso degli Stati Uniti d’America). Si dimostrerebbe anche che l’adozione, come strumento di politica interna e internazionale, di un modello di civiltà fondato sul welfare, sull’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, sul rifiuto assoluto della guerra e della violenza, non garantisce il consenso dei cittadini coinvolti, sempre a rischio di risucchio nei vecchi miti nazionalistici e razzisti specie se frustrati da una pesante crisi economica.
L’uscita della “perfida Albione” britannica dai giochi UE, potrebbe creare le condizioni per rimettere le ali al rilancio del progetto verso la piena Unione. Non più defatiganti discussioni sui maldipancia degli oltreManica. Non più il borsellino londinese aperto al tavolo comunitario con l’eterna richiesta di elemosine su un bilancio comunitario ritenuto comunque esoso verso il contribuente britannico. Non più imposizioni e veto contro l’espansione delle competenze politiche e finanziarie dell’Unione. Di opt out e rebate britannici l’Unione rischiava di morire. Ora ne è fuori e può trarne vantaggio.
Peccato che non lo farà: nei suoi ingranaggi ci sono altra polvere e tanti sassi. La macchina Ue si potrà rimettere in movimento solo quando gli ingranaggi saranno puliti.
Ostacoli arrivano in particolare dalle democrazie dell’Europa centro orientale, dai paesi già comunisti, catapultati dai fatti dell’89 in istituzioni che non hanno contribuito a fondare, ai cui ideali non risultano interessati, e alle quali hanno aderito non per contribuire al progetto continentale di unione ma per sentirsi al sicuro dalle unghiate dell’orso russo (v. il destino di Georgia e Ucraina) e accomodarsi al banchetto dei fondi europei di sviluppo.
La distanza lunare che li separa dal gruppo storico dell’Unione, quello che si è ritrovato a Ventotene presso la tomba del grande padre federalista Altiero Spinelli, la si è vista nell’incontro che il cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) ha appena avuto con Angela Merkel, reduce dalla conferenza stampa con Matteo Renzi e François Hollande sulla Garibaldi (proprio la portaerei che guida la missione europea Sofia contro il traffico di migranti in arrivo dalla Libia, tanto per far capire come la pensano i tre convenuti sulla questione rifugiati e terrorismo!).
Alla cancelliera tedesca che, forte delle conclusioni del vertice con gli altri due grandi, invitava i colleghi centroeuropei ad accettare il meccanismo solidale delle quote di rifugiati, è stata opposta la richiesta di lavorare alla creazione di forze armate UE. Si dirà: ottima notiza! E’ ciò che si provò a fare già nel 1952 con il trattato sulla Comunità europea di difesa (CED), mai entrato in forza a causa del voto del parlamento francese del 29 agosto 1954. Peccato che la richiesta dei quattro di Visegrad non abbia nulla a che spartire né con quel progetto né con i tanti altri progetti sulla difesa comune che si sarebbero succeduti nel sessant’anni successivi. Ai partner centro europei interessa ergere un argine “cattivo” contro i richiedenti asilo, non mettere sotto bandiera e comando comune forze che difendano gli ideali e i programmi dell’Unione, le sue libere e solidali istituzioni, il suo progetto di società e di vita associata aperte, gli interessi economici e sociali dei suoi stati membri e dei suoi cittadini. Uno strumento che, in collaborazione con la NATO, sollevi, almeno in parte, il bilancio dell’alleato statunitense dal fardello della difesa del vecchio continente (e comunque sei paesi dell’Unione, Cipro, Malta, Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia, non fanno parte della NATO…).
I “nuovi europei” come, con senso di sfida polemica contro i “vecchi” tedeschi francesi e italiani, li chiamava la sciagurata Casa Bianca di Bush W., chiedono truppe che, sotto bandiera dell’Unione, impediscano ai richiedenti asilo di entrare sul suolo dell’Unione. Esigono la rinuncia al programma di redistribuzione dei rifugiati tra paesi membri, allestito dalla Commissione (che la Merkel appoggia), e che si blocchi ogni tentativo di rilanciare il completamento dell’Unione. Notano minacciosi che, nel caso non ci si adegui, ci si assumerà la responsabilità di costruire le condizioni per ulteriori abbandoni, per altri referendum popolari che sancirebbero la disintegrazione dell’Ue. Comincia l’Ungheria, che ha convocato per il 2 ottobre gli elettori a pronunciarsi sul piano di ricollocamento varato dalla Commissione. L’Europa paga, vent’anni dopo, la frettolosa e sbagliata adesione dell’Europa centro-orientale, sponsorizzata da Washington e voluta da Londra anche per disporre di alleati nel boicottaggio del progetto unionale, complice l’allora presidente della Commissione Romano Prodi. Non consola raccontare che il Regno Unito ha smesso di danneggiare l’UE dal suo interno, Prodi non può più nuocere alle istituzioni, e gli Stati Uniti hanno tutt’altro tipo di presidente e di politica verso l’Europa.
Tra l’altro, da alcuni paesi di Visegrad viene posta alle istituzioni un’inattesa questione democratica, almeno per gli standard sperimentati dai primi sessant’anni di esperienze comuni. Viktor Orban in Ungheria e Beata Szydlo in Polonia limitano molte libertà e sono sotto osservazione alla Commissione e al Parlamento europei. Nel metodo UE non sono prevedibili imposizioni e nessuno ha autorità sufficiente per tentarle. Si tratta, tuttavia, di comportamenti inaccettabili per gli standard e le tradizioni unionali.
Al tempo stesso paesi di Visegrad ma anche del gruppo baltico, intendono spingere l’UE ad appesantire il dossier aperto con la Russia dopo i noti fatti ucraini. Non è nell’interesse dell’UE né della pace europea aderire a quel percorso, nonostante la comprensione per il risentimento di paesi che tanto hanno sopportato dall’Unione Sovietica. Mosca va tranquillizzata, non esasperata. E comunque verso la Russia non può esserci politica europea che non sia concordata con Washington, per il fattore strategico in termini di armamenti nucleari che la Russa rappresenta. L’avventurismo al quale nei giorni scorsi il giovane premier estone Taavi Roivas ha chiamato Angela Merkel va respinto.
Fa bene Merkel ad essere prudente, e a gestire con sapiente flemma il grande potere che la coerenza tedesca ha accumulato in Europa, anche nei confronti della Russia. Dopo Ventotene, ha messo in chiaro che nessun volontarismo, neppure se a manifestarlo fosse la Germania, potrebbe far ripartire l’Unione sulle nuove basi che richiede l’uscita britannica: “Se si sbaglia dall’inizio e non si ascolta e si agisce tanto per agire, allora si possono fare molti errori”. E’ però anche vero che l’attendismo in vista del consenso collettivo non ha sinora premiato lo sviluppo dell’Unione; tutt’altro. Il caso britannico suona eloquente. Nella tecnica di gestione del club (l’UE lo è) le posizioni diverse sono armonizzabili, non così le posizioni opposte. Su queste serve alzare la voce e chiarirsi fino in fondo.
Il club vive anche di buona condotta e buona educazione. Lo si spieghi a Londra. Disponendo di un nuovo governo e di un ministro che ha l’incarico di gestire il distacco dall’UE, si spicci a notificare le condizioni di uscita, così da chiudere finalmente la lunga telenovela del rapporto con Bruxelles.
Non sarebbe corretto addossare ogni colpa della regressione UE alle nuove democrazie europee e a Londra. Anche tra i partner storici, persino tra i fondatori, ci sono distinguo irrisolti. Non si dimentichi, come il citato esempio della CED richiama, che proprio la Francia, al di là dell’immancabile magniloquente retorica europeista, nei momenti topici dell’evoluzione verso forme più avanzate di comunità e unione, si è tirata spesso indietro, vittima di ricorrenti fantasmi nazionalistici sulla “unicité” francese.
A Ventotene i tre leader pro-europei hanno condiviso le priorità su economia, sicurezza e difesa, energia e tecnologie innovative. Però hanno evitato di lanciare un nuovo Manifesto europeista, nonostante Ventotene e i 75 anni del documento di Spinelli. Né hanno pronunciato una sola parola seria sulla necessità che l’euro sia gestito, ora che il Regno Unito è fuori, da un vero governo. L’euro non è una unità di conto ma una moneta federale, e ha bisogno che le si costruisca addosso un fisco e un governo dell’economia che ne rispecchi la natura.
Repubblica online ha ripreso un divertente esercizio di fantasia creativa, circolato su molti social, riguardante le supposte medaglie che l’UE avrebbe collezionato alle Olimpiadi di Rio se le nazioni che ne fanno parte si fossero presentate sotto bandiera comune. Senza il Regno Unito, UE a 27 avrebbe battuto USA per 325 medaglie a 121 (Germania e Francia 42 ciascuna, Italia 28, Olanda 19). Non che politica ed economia siano discipline sportive, però è vero che ambedue si basano sulla competizione all’ultimo respiro, proprio come accade nello sport.