Sulla stampa internazionale (Reuters, Financial Times, Wall Street Journal, Le Monde, El País) tornano voci preoccupate sul futuro dell’Italia. I noti argomenti riguardanti l’economia (debito in costante crescita, Pil bloccato, investimenti stagnanti) si combinano con il timore delle conseguenze dell’eventuale risultato negativo nel referendum costituzionale d’autunno. Un mese fa Economist aveva pubblicato in copertina un bus pencolante sul precipizio, con la fiancata pitturata in tricolore: nel settimanale il nostro paese era descritto come economia “tra le più fragili d’Europa, col debito pubblico al 135% del pil, il tasso di occupazione adulta più basso dopo la Grecia, un’economia agonizzante da anni, soffocata da eccessi normativi e produttività debole”.
Gli articoli di questi giorni, che tutti indicano nell’Italia il paese che potrà scatenare la prossima crisi dell’Ue, risvegliando gli incubi peggiori dei tedeschi che all’epoca non ci volevano nell’euro temendo proprio una situazione del genere, analizzano diversi scenari possibili.
Quello peggiore mette in fila i seguenti paventati accadimenti: no maggioritario al referendum, dimissioni del governo, economia verso la recessione anche per gli effetti di Brexit, governo istituzionale al posto di quello Renzi o Renzi bis allargato a Forza Italia per procedere all’approvazione della legge elettorale, nuove elezioni. In sintesi: economia al palo, e Movimento 5 Stelle euforico per la prossimità al potere.
Lo scenario meno pessimistico salva l’economia con misure congiunturali che il governo assumerebbe fra qualche settimana, ma non sposta di un capello instabilità politica ed ennesimo mutamento di ceto dirigente.
Quello ottimistico, parte dalla vittoria referendaria del sì, e vede un Matteo Renzi rafforzato, che prepara la volata per le elezioni. Le vince e può finalmente riformare il paese.
M5S, che al momento risulta il primo partito italiano, paradossalmente guadagnerebbe di più dal sì referendario (che combatte), perché dopo le elezioni, se fosse come dicono il più votato, con le nuove regole costituzionali avrebbe in tasca palazzo Chigi. A quel punto però, la tela delle riforme del governo Renzi, effettuate o programmate, verrebbe riavvolta. L’economia, già ora in difficoltà, subirebbe ulteriori colpi, magari anche per effetto dell’annunciato referendum pentastellato sull’uscita italiana dall’euro. Il guaio fatto da Cameron a Gran Bretagna e Unione sarebbe, a quel punto, una bazzecola rispetto al danno che gli azzardi referendari italiani avrebbero procurato al paese e all’Europa.
Con accenti diversi rimbalzano tra questi scenari le considerazioni di María Salas Oraá in El País del 13 agosto e quelle di Neil Unmack su Reuters, Breakingviews, del 17. Quanto si può accettare nell’analisi proposta dai due esperti d’Italia, la prima qualificando il nostro paese come “economia malata d’Europa”, il secondo attribuendo a Renzi di condurre un gioco d’azzardo che è destinato a perdere, a meno che non riesca (missione impossibile, viene da dire) a rilanciare subito un sistema economico che però non sembra proprio averne voglia?
Al di là dei toni forti utilizzati dai due commentatori, c’è indubbiamente del vero in quello che scrivono, ad esempio quando esprimono la convinzione che Matteo Renzi possa vincere o perdere sull’economia e sul sociale non sul risultato referendario (come invece sostiene Richard Barley su Wall Street Journal) la sua partita politica, e che gli sia rimasto, su questo fronte, ben poco tempo a disposizione. Se l’affermazione è corretta, come sembra, allora hanno avuto ragione i tanti che, negli scorsi mesi si sono affannati, anche nel partito democratico e a palazzo Chigi, a chiedere al presidente del consiglio di non disperdere tempo ed energie sul percorso della riforma costituzionale (peraltro uscita sbilenca e parziale rispetto agli enunciati), ma di concentrarsi su ben altro genere di cose, che costituiscono la radice della più lunga crisi della storia unitaria.
Il paese era cresciuto tra il 1996 e il 2011 con una media dello 0,9% l’anno, rispetto all’1,4% della Germania, l’1,8% della Francia, il 2,6% della Spagna. Poi aveva subito i colpi del maglio della crisi del debito sovrano europeo, soccombendo, nella fragilità strutturale e nella lunga scura stagione politica e morale, alla recessione. Renzi sapeva che in un quarto di secolo l’Italia aveva visto (tanto per scorrere qualche pagina del triste album di famiglia) la decapitazione di almeno quattro ceti di governo, la recessione al Pil di inizio millennio, l’impoverimento di milioni di famiglie, la ripresa dell’emigrazione e l’uscita massiccia di giovani in particolare quelli colti e formati (il fenomeno si legge brain drain e apparteneva un tempo ai paesi in sviluppo), la scomparsa dei più grandi marchi industriali privati, la crisi demografica e la diminuzione di popolazione autoctona, la rinuncia allo studio e l’analfabetizzazione di ritorno, la diffusione come mai prima di corruzione e infiltrazioni criminali.
Il capo del governo, di fronte a questi dati, ha ritenuto che senza alleggerire il percorso che la costituzione in vigore affida al processo legislativo, senza garantire al partito più votato mani libere, il suo governo riformatore non potesse portare avanti il disegno di quelle riforme nel profondo che servono alla società italiana per tornare a sperare in un futuro. Il fatto è che, a prescindere dalla bontà del progetto, dalla sua opportunità, da come sia stato realizzato nel testo che andrà presto a referendum, nei fatti esso è risultato intempestivo e divisivo. Intempestivo perché c’erano e ci sono ben altre priorità nel nostro paese, divisivo perché non è stato condiviso neppure dall’intero partito del primo ministro, figurarsi dall’opposizione che, sulle riforme costituzionali, dovrebbe sempre essere stimolata a lasciarsi coinvolgere. L’opinione pubblica, l’elettorato ha guardato e preso nota.
Non è nella costituzione il problema italiano. Il “male” che corrode il paese non viene certo dalla farraginosità delle procedure del bicameralismo perfetto, né dalle centinaia di milioni che ci costa. Se anche il referendum desse ragione al presidente del consiglio, il “male italiano” non arretrerebbe di un millimetro. La magistratura continuerebbe a “fare le norme” invece di applicarle con giustizia ed equità. La lentocrazia continuerebbe a imperversare. La “casta” della pubblica amministrazione continuerebbe con le esose retribuzioni, sprechi e corruzione resterebbero dove sono, la criminalità organizzata continuerebbe a taglieggiare piccoli e medi imprenditori proprio come fa lo stato quando non paga i suoi debiti, la bulimia fiscale non si arresterebbe impoverendo i cittadini che lavorano e allontanando gli investimenti produttivi, i servizi pubblici e sociali così come le pensioni resterebbero al di sotto della decenza in molte parti del paese e per troppi cittadini. E’ in queste poche enormi cose che il governo deve concentrarsi. E su alcune (si prenda la scuola) aveva anche preso qualche impegno.
Forse è in questo elenco la risposta all’interrogativo che Le Monde ha posto nei giorni scorsi: “perché Matteo Renzi non riesce a raddrizzare l’economia italiana?”. Lo stesso Neil Unmack, che pure conduce nel suo pezzo un’analisi tutta politica, sembra condividere, almeno quando ipotizza che, per evitare di uscire di scena, Renzi debba attuare subito provvedimenti con i seguenti obiettivi: “making courts more effective, bad debts easier to resolve, the public sector more efficient, and boosting investment.”.
I dati congiunturali, pubblicati il 12 agosto, cospirano contro la durata del governo, incapace, nonostante gli annunci, di smuovere il pachiderma sfiduciato del sistema produttivo e distributivo nazionale, e di richiamare la fuggitiva domanda. Il secondo quadrimestre vede l’economia ferma, la disoccupazione in risalita (11.6% contro la media Eurozona del 10,1%), i giovani senza lavoro ben sopra un terzo della popolazione coetanea (36,5% contro la media Ue del 20,8%).
In attesa delle riforme, occorre evitare il baratro della recessione e della deflazione, e per farlo servono misure classiche di tipo keynesiano: lavori pubblici per servizi sociali e infrastrutture specie quelle immateriali, taglio selvaggio alle imposte sul reddito (lo chiede anche il Financial Times in un articolo uscito a Ferragosto). Il che, comunque, risulterebbe insufficiente, senza la decisa revisione delle uscite della finanza pubblica improduttiva, ad iniziare da generose sforbiciate a stipendi e vitalizi di alti burocrati, in particolare nella selva delle tante magistrature, del tutto ingiustificabili in quanto non collegati alla produttività, ma a funzioni rivestite di privilegi arcaici e aristocratici, che nulla hanno a che spartire con la cultura politica di uno stato che è repubblicano e democratico.
C’è ovviamente da capire cosa Bruxelles e i nostri partner dell’Unione consentiranno venga deciso a Roma. In più di un’occasione il capo del governo ha alzato la voce e ottenuto quello che voleva. I risultati non sono però dalla sua parte. Incontrerà quindi maggiori difficoltà, anche perché all’orizzonte non si vede nessuna seria manovra di rientro del debito (altri 7 miliardi a ruolo nell’ultimo mese), e continuare a chiedere autorizzazioni di spesa e flessibilità sui conti, in questa situazione, qualche problema lo porrà. Sembrano echeggiare questa preoccupazione le dichiarazioni rilasciate il 20 agosto dal ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda che, tuttavia, non adombrano il drammatico e sostanzioso cambio di marcia che gli opinionisti internazionali chiedono all’Italia. Tornare a dire a Commissione e partner che abbiamo un “piano industriale credibile fondato sullo stimolo agli investimenti e la competitività del sistema produttivo” potrebbe non risultare convincente. Tra l’altro farà osservare che ancora una volta si lasciano da parte le esigenze della domanda. In Ecofin, dove si è concordato che i vincoli sul deficit possono sopportare una sola eccezione, non faranno salti di gioia specie se, come dice Calenda, l’Italia chiederà di riaprire la partita. Sarà comunque complicato sedere sul banco degli imputati e pretendere di essere pubblico ministero accusando partner che hanno conti pubblici migliori di noi, e che sui loro problemi apparentemente intervengono con più solerzia di quanto facciamo noi (Francia ed Austria sono anch’esse a crescita zero nel secondo trimestre rispetto al primo; l’Eurozona è a 0,3% e l’Ue a 0,4% che è anche il dato della crescita tedesca).
Dati congiunturali alla mano, se l’autunno andrà bene, a fine anno registreremo la crescita dello 0,6%, la metà di quanto pronosticato dal governo. Per l’anno che viene, ombrelli aperti, perché grandinerà di brutto. Si accettano scommesse.