Questa è la traduzione dall’inglese di una inchiesta pubblicata su ProPublica
Una settimana prima che le truppe statunitensi lasciassero il suo paese nel dicembre 2011, il Primo Ministro iracheno Nouri al-Maliki si recò a Washington per incontrarsi con le persone incaricate di delineare il futuro di un Iraq libero dai carro armati.
Durante la cena svoltasi alla Blair House, che dal 1940 accoglie gli ospiti d’élite della Casa Bianca, l’ombroso ministro iracheno sorseggiava il suo thé mentre la Segretaria di Stato Hillary Rodham Clinton illustrava come gli esperti del suo team potessero aiutare l’Iraq ad evitare di tornare al terrorismo e agli spargimenti di sangue scatenati dalle differenze tra razze e ideologie.
L’Iraq sperimenterà una “forte presenza di civili”, ha riferito Clinton ai giornalisti in seguito al colloqui, riassumendo le promesse fatte a Maliki dall’amministrazione Obama. “Stiamo lavorando per questo obiettivo” ha poi aggiunto.
Meno di tre anni dopo, il periodo di relativa calma che Maliki aveva creato nel 2011 era finito. Il governo del paese era in crisi, l’esercito addestrato dagli USA umiliato e un terzo dei suoi territori era controllato dalle milizie dello Stato Islamico. Intanto, i programmi mirati a prevenire tali sviluppi erano stati tagliati o ridotti, e alcuni non avevano nemmeno preso avvio.
I nemici politici di Clinton avrebbero in seguito fatto leva su questo per incolpare lei e il Presidente Obama della rapida presa di potere da parte dell’ISIS nella parte occidentale del paese, affermando che il Dipartimento di Stato avesse fallito nel preservare i deboli e sudati risultati raggiunti nel campo della sicurezza dalle truppe americane. Durante un discorso pronunciato lunedì scorso riguardo a come avrebbe reagito alla minaccia del terrorismo, il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali Donald Trump ha detto: “L’ascesa dell’ISIS è il risultato diretto delle decisioni prese dal Presidente Obama e dalla sua Segretaria di Stato Hillary Clinton”.
Ma un approfondito studio del mandato di Clinton rivela, in realtà, una prospettiva più ampia riguardo alle mosse sbagliate che sono state in realtà portate avanti da molteplici attori, tra i quali il suo Dipartimento di Stato e il governo di Maliki, la Casa Bianca e il Congresso. Queste hanno lasciato le forze di sicurezza irachene deboli e vulnerabili proprio nel momento in cui lo Stato Islamico si stava rafforzando, nel 2014.
Vari documenti e interviste testimoniano infatti che il Dipartimento di Stato pianificava di mettere i propri ufficiali al comando di dozzine di programmi militari in Iraq che spaziavano dall’addestramento della polizia al raggiungimento di prestazioni avanzate da parte dei servizi segreti di Mosul e di altre località nevralgiche del paese. Molti di questi programmi sono però stati scartati o interrotti, a volte sotto richiesta ufficiale di un Congresso che si dichiarava scettico e altre a causa di ordini provenienti dalla Casa Bianca che metteva in guardia riguardo agli alti costi e ai potenziali rischi di attacco o rapimento ai quali si esponevano, in questo modo, i civili americani. Altri programmi ancora sono stati bloccati direttamente dal governo di Maliki che considerava i progetti come un’indesiderata intrusione degli americani negli affari interni dell’Iraq.
Secondo un’indagine portata avanti da ProPublica e dal Washington Post, poi, anche i leader del Dipartimento di Stato sono da ritenere responsabili del crollo della situazione in Iraq, come attestato da documenti e interviste con gli ufficiali che aiutarono a gestire i programmi di aiuti attivati nel paese in seguito al ritiro delle truppe americane. All’inizio del 2012, quando la Casa Bianca premeva per ridurre l’impatto della popolazione civile americana in Iraq, il Dipartimento aveva già messo in atto una serie di tagli generici ai fondi delle iniziative mirate alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, settori una volta considerati cruciali per la stabilità dell’Iraq post-USA.
Secondo molto ufficiali americani da tempo a stretto contatto con la Casa Bianca Hillary Clinton, che in quel momento faceva parte del gruppo incaricato di curare la sicurezza nazionale, si sarebbe dichiarata a favore di molti programmi che sono in seguito stati tagliati dal Dipartimento. Secondo l’attuale candidata Democratica infatti le disavventure politiche degli Stati Uniti in Iraq, dall’invasione e occupazione iniziali fino al disastro seguito al ritiro dell’esercito, non le hanno permesso di implementare il proprio programma in politica estera. Clinton ha infatti più volte ribadito la necessità di creare alleanze militari e tribali in Iraq in modo da riuscire a respingere lo Stato Islamico, promuovendo un’espansione dei programmi che erano stati limitati in seguito al ritiro delle truppe nel 2011, durante il suo mandato.
Un gruppo del Dipartimento di Stato che gestiva i tagli sotto la direzione della Casa Bianca si è infine ritrovato con un surplus di 1.6 miliardi di dollari, inizialmente destinati all’Iraq ma poi utilizzati in altre zone di conflitto come la Libia.
Il ridimensionamento è avvenuto senza curarsi delle obiezioni mosse dai generali delle truppe americane sul campo, che affermavano che i tagli ai programmi di assistenza — in alcuni casi, superiori al 90 per cento — lasciavano il governo americano ancora più all’oscuro riguardo a ciò che succedeva al di fuori della capitale irachena. Alcuni ex-ufficiali che controllavano le forze di sicurezza irachene hanno dichiarato che i tagli sono stati un fattore fondamentale che ha contribuito alla deteriorazione delle forze di sicurezza nel paese durante i mesi precedenti l’attacco dello Stato Islamico nel 2014. “Il nostro lavoro consisteva proprio nell’evitare che ciò accadesse” ha affermato l’ormai pensionato contrammiraglio Edward Winters, ex generale delle forze speciali della Marina statunitense e vicedirettore dell’Ufficio per la Sicurezza e la Cooperazione in Iraq (un’organizzazione supervisionata dal Dipartimento di Stato che controllava le relazioni di sicurezza bilaterali). “Ci sentivamo come se le nostre possibilità di portare a termine il lavoro ci venissero portate via”, ha aggiunto.
Un vuoto strategico
Ufficiali presenti e passati dell’amministrazione Obama, compresi alcuni che non erano affatto d’accordo con le politiche decise dal Dipartimento di Stato riguardo all’Iraq, difendono oggi Clinton definendola come uno dei più aperti sostenitori della presenza militare americana anche dopo la scadenza degli accordi. Clinton ha infatti ripetuto, sia in pubblico che privatamente, la necessità di mantenere un contingente di truppe in Iraq anche dopo il 31 dicembre 2011 e, quando le sue richieste non sono state ascoltate, ha fatto pressioni sulla Casa Bianca e sul Congresso per ottenere fondi mirati a sostenere programmi di sicurezza in Iraq gestiti dai civili. In quanto presidente del gruppo per la sicurezza nazionale Clinton ha criticato l’effettiva abilità del governo di Maliki nel tenere il paese unito e ha fatto notare che l’instabilità avrebbe potuto portare ad un ritorno di al-Qaida in Iraq (AQI), il gruppo terroristico successivamente rinominatosi come Stato Islamico. “Clinton lo aveva capito” ha affermato il vicesegretario di Stato Antony J. Blinken, che in quel momento ricopriva il ruolo di national security adviser per il vicepresidente Biden e, in seguito, sarebbe stato vice national security adviser per Obama, proprio in un momento cruciale per la questione irachena. “Lei sapeva che AQI non era scomparso e ha messo in guarda l’Iraq e l’America, affermando che era necessario combatterlo ancora”.
Le riduzioni fatte sui piani erano effettivamente in linea con i programmi di ridimensionamento della spesa ma non “consideravano in modo completo le priorità americane in Iraq”, è stato affermato in una revisione interna guidata dall’ispettore generale del Dipartimento di Stato. Anche se alcuni dei tagli sono stati resi effettivi solo in seguito al cambio di ruolo di Clinton nel 2013, i piani erano già stati presentati da lungo tempo e il report non specifica il ruolo giocato da Clinton in essi o la sua visione a riguardo. “La transizione ha richiesto del tempo prima di passare da una missione di carattere militare ad una di carattere civile, in cui non venivano prese decisioni strategiche. Un ufficiale si è riferito a questo periodo come ad uno ‘strategic vacuum’ (vuoto strategico)” ha affermato l’ispettore generale nella revisione del 2013, facendo riferimento alle interviste con gli ufficiali tenutesi a Washington e in Iraq. Il report afferma che i tagli erano inoltre sostenuti dal fatto che “il Congresso e della Casa Bianca erano preoccupati perchè il Dipartimento minacciava di ridurre rapidamente i costi e quindi della vulnerabilità della sicurezza, e di confrontarsi con il desiderio del governo iracheno per una normalizzata presenza diplomatica americana”.
Tra le vittime dei tagli c’era anche un programma di riconciliazione delle tribù irachene guidato dall’esercito americano che in passato aveva dato prova di risolvere con successo alcuni conflitti in corso tra le fazioni sciite, sunnite e curde. Le ostilità tra i sunniti e il governo sciita di Maliki sarebbe poi diventato un fattore chiave abilmente sfruttato dalle forze dello Stato Islamico per prendere il controllo delle zone occupate dai sunniti nel 2014.
Quando gli è stato chiesto di giustificare i tagli, un portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato in una mail che il sistema diplomatico non aveva il “personale o le risorse finanziarie” necessari per continuare molti dei programmi iniziati dal Pentagono in un momento in cui decine di migliaia di truppe statunitensi erano in servizio in Iraq. Il risultato è stata la “perdita di fiducia all’interno della comunità sunnita” e l’abbandono di un’importante punto di contatto con ciò che stava realmente succedendo in Iraq, ha affermato l’ex Colonnello Rick Welch, che ha supervisionato il programma prima del ritiro. “Nessuno dal Dipartimento di Stato mi ha mai contattato” ha detto Welch durante un’intervista. Alla fine gli sforzi che hanno portato alla riconciliazione avvenuta a Baghdad sono stati marchiati come “insignificanti — ha aggiunto — e poi non è successo più nulla”.
Gli ordini del presidente

(Photo by US Army Spc. Kimberly Millett, MNF-I Public Affairs)
Durante le sue prime settimane di presidenza Barack Obama si è recato al Camp Lejeune, la base della Marina americana in North Carolina, per riconfermare una promessa fatta nel corso della sua campagna elettorale: porre fine alle guerre in cui erano coinvolti gli Stati Uniti in Medio Oriente. Obama si è rivolto alle truppe affermando che “la guerra in Iraq finirà” con un responsabile e graduale ritiro delle forze americane presenti nel paese entro il 31 dicembre 2011, rispettando quindi la scadenza fissata tre anni prima dall’amministrazione di George W. Bush.
In realtà, anche all’interno dell’amministrazione di Obama pochi credevano realmente che il contingente americano avrebbe lasciato l’Iraq entro quella data. Durante varie interviste, ufficiali del Dipartimento di Stato e del Pentagono si sono detti convinti del fatto che l’Iraq avrebbe negoziato un accordo per permettere ad un ridotto gruppo di soldati americani — circa 10 000 — di rimanere nel paese per assicurare il mantenimento della stabilità e scongiurare il ritorno di al-Qaida in Iraq.
La presenza di truppe americane dopo il 2011 avrebbe rappresentato un importante punto a favore per i diplomatici americani in Iraq, assicurando al Pentagono un ruolo di primo piano nell’organizzazione dei programmi che prevedevano la collaborazione di forze militari americane e irachene e aiutando inoltre in operazioni banali ma necessarie quali sicurezza, assistenza medica, accesso alle risorse alimentari e mantenimento di un adeguato servizio di trasporti terrestri e aerei.
Ma con una deadline sempre più imminente e nessuna decisione proveniente dalla Casa Bianca, il Dipartimento di Stato iniziò ad assumere migliaia di appaltatori per svolgere gli stessi servizi a prezzo ben più alto. L’incertezza dominò fino ad ottobre 2011, quando con sole 10 settimane di preavviso si decise di ritirare tutte le truppe dall’Iraq.
Durante questo periodo Clinton continuò la sua campagna a favore di quella che è stata definita una “importante e robusta” missione per i diplomatici americani in Iraq, preferibilmente sostenuta da una guarnigione militare. La sua proposta è stata appoggiata da molti militari e ufficiali dei servizi segreti che parteciparono alle discussioni riguardanti il futuro dell’Iraq, ed è stata inoltre presentata al pubblico tramite diverse conferenze stampa e deposizioni al Congresso.
“Mirava a trovare un modo per sfruttare al meglio l’influenza del governo americano al fine di far rimanere le truppe” ha affermato Jake Sullivan, l’allora direttore del ramo di pianificazione del Dipartimento di Stato poi diventato il principale consulente di politica estera durante la campagna presidenziale di Clinton. Anche se le possibilità di permanenza di un contingente americano in Iraq sfumavano sempre più, Clinton “insisteva per ottenere un efficace piano di riserva, in modo da non lasciare al caso nulla di ciò che riguardasse la protezione dei civili e delle basi lontane da Baghdad” ha dichiarato ancora Sullivan.
Ufficialmente, in un primo momento il Dipartimento di Stato contava di prendere il controllo su più di un terzo dei 1300 programmi e missioni attivati dal Pentagono in Iraq. Questo, come la stessa Clinton ha affermato, avrebbe rappresentato “la più grande transizione da una leadership militare ad una civile avvenuta in seguito al Piano Marshall”, il programma di aiuti offerti dagli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale.
I programmi pensati nel 2010 prevedevano di controllare le principali missioni di sicurezza, quali ad esempio il piano di riconciliazione tra le varie tribù. Un altro progetto proponeva di costruire nuovi avamposti diplomatici e di spionaggio in tutto il paese in modo da assicurare che gli Stati Uniti mantenessero la loro presenza nelle zone in cui precedentemente erano situate le basi militari. Questi nuovi punti di osservazione, chiamati “Enduring Presence Posts” (EPPs), dovevano inizialmente essere posti in 5 località: Irbil, la provincia di Diyiala, Kirkuk, Basra e Mosul.
Gli ufficiali del Dipartimento di Stato invitarono il Congresso ad approvare il rilascio di fondi per le EPPs, affermando che gli avamposti avrebbero aiutato a “mitigare i conflitti etnico-settari” permettendo allo stesso tempo agli ufficiali di sicurezza poter “prevedere e prevenire o contenere in modo migliore le instabilità in zone lontane da Baghdad”.
“Riconoscere i problemi emergenti in tempo sarà un punto fondamentale” ha dichiarato un aiutante di Clinton nel 2010 in un rapporto del personale indirizzato al Parlamento. Il rapporto ha sollevato preoccupazioni riguardo all’effettiva abilità del Dipartimento di riuscire a mettere in pratica i suoi nuovi compiti senza il supporto dell’esercito, ma ha anche convinto il Congresso ad investire nei dovuti aiuti finanziari.

A Washington, sia la Casa Bianca che il Congresso si sono confrontati con i programmi in modo piuttosto scettico. Durante una seduta del Comitato di Spesa Pubblica del Senato di marzo 2011, la Senatrice Lindsey O. Graham (R-S.C.) ha deriso l’idea di creare una forza civile di diplomatici e contrattisti per “provare a concludere affari in Iraq senza bisogno di avere delle truppe sul posto. Questo è in pratica il tentativo di un esercito privato di rimpiazzare le Forze Armate Americane” Graham ha detto a Clinton. “Credo che dovremmo pensare come farebbe una nazione, dico bene?”.
Il processo necessario per produrre, equipaggiare e mettere in sicurezza un’enclave diplomatica all’interno di una città irachena come Mosul — focolaio del terrorismo sunnita nel 2011 — ha particolarmente colpito l’amministrazione Obama per l’esorbitante spesa economica richiesta e per la sua impraticabilità, rafforzata per di più dalla crescente antipatia di Maliki verso le interferenze americane negli affari interni dell’Iraq, hanno riferito alcuni partecipanti alle discussioni private sul tema.
L’eliminazione delle truppe americane significava ovviamente la chiusura di tutte le installazioni militari, incluse le dozzine di Provincial Reconstruction Teams, le unità regionali minori tramite le quali l’esercito statunitense e i lavoratori civili amministravano gli aiuti destinati alle città e alle tribù locali. Non potendo far affidamento sull’aiuto iracheno, gli ufficiali del Dipartimento di Stato hanno dovuto ingaggiare un esercito di contrattatori per replicare il funzionamento e i servizi precedentemente forniti dal Pentagono. Per i diplomatici americani, un semplice viaggio di 40 miglia (circa 64 chilometri) sull’autostrada che va da Baghdad a Baqubah si trasformò in processo complicato e pericoloso, durante il quale il rischio di venire assassinati o rapiti era costante.
La decisione di ridimensionare i piani per le missioni civili post-2011 fu presa da Biden e da un gruppo di ufficiali della Casa Bianca che includeva rappresentanti del personale del Consiglio di Sicurezza Nazionale di Obama, ai quali, secondo quanto affermato da ufficiali che presero parte agli incontri, furono affidate le principali responsabilità nel trattare le difficili relazioni con l’Iraq.
Il gruppo guidato dal vicesegretario del Dipartimento di Stato Thomas R. Nides fu incaricato di rivedere e implementare le riduzioni, con il supporto degli ufficiali del Dipartimento a Washington e Baghdad. Clinton, avendo perso la sua battaglia per il mantenimento delle truppe nel paese, fu consultata a riguardo degli sviluppi ma lasciò che i suoi sottoposti decidessero come rendere efficaci i tagli.
L’ufficio di Biden non rilasciò alcun commento riguardante le riduzioni anche se fonti interne hanno rivelato che i tagli riflettevano la visione predominante alla Casa Bianca e a Capitol Hill: un grande dispiego di forze civili in Iraq non sarebbe stato sostenibile una volte che le truppe americane avessero lasciato il paese.
“Il presidente decise di ritirare le truppe, e noi abbiamo eseguito nient’altro che le direttive del presidente” ha affermato Nides, proseguendo: “Per quanto riguarda i civili, la più grande preoccupazione della Casa Bianca era assicurare la sicurezza della popolazione. Quando fu deciso che non avremmo più avuto l’autorità necessaria per mantenere le nostre forze militari sul luogo — in realtà anche prima che la decisione venisse ufficializzata — sapevamo che non solo non saremmo riusciti a crescere, ma anzi che sarebbe presto arrivato un ordine di ridimensionamento. In quel momento avevamo la più grande civilian footprint del pianeta”
Gli ufficiali dell’amministrazione insistettero perché un contingente più piccolo e guidato da civili continuasse a fornire supporto per la delicata transizione irachena, ma i tagli erano demoralizzanti per il Dipartimento di Stato e per gli ufficiali del Pentagono che vedevano i programmi di aiuto ridursi sempre più o scomparire del tutto. I rappresentanti del Dipartimento di Stato cercarono di persuadere altre agenzie, tra cui la CIA, a dividere i costi per creare delle centrali operative a Mosul e in altre città, ma anche questa idea si rivelò essere un fallimento.
“La forte presenza che ci eravamo immaginati non sopravvisse” ricorda oggi un ex ufficiale del Dipartimento che preferisce rimanere anonimo in modo da poter descrivere le delibere private contrattate alla Casa Bianca a riguardo della questione irachena. “Le proposte continuavano a non essere accettate. Uscivamo da ogni riunione con brutte notizie riguardo all’ultima cosa che era stata tagliata”.
Un incubo al rallentatore
Nel frattempo anche altri programmi che tentavano di aiutare l’Iraq a sconfiggere il terrorismo stavano lentamente spegnendosi.
Il 1 gennaio 2012, il primo giorno dopo il ritiro delle truppe americane dal paese, 157 persone dell’esercito statunitense rimasero nel paese per lavorare presso l’Ufficio per la Sicurezza e la Cooperazione in Iraq, gestito dal Dipartimento di Stato. Il Pentagono e gli ufficiali del Dipartimento, poi, richiesero ed ottennero l’autorizzazione a raddoppiare il personale passando da 157 a circa 300 persone, appoggiate a loro volta da migliaia di altri lavoratori che curavano le mansioni secondarie.
I bilanci del Pentagono risalenti al 2012 definiscono “vitali” le unità di contro terrorismo (conosciute come “Counter Terrorism Service”) che facilitavano la condivisione di informazioni tra l’esercito e le agenzie civili tanto in America quanto in Iraq.
I programmi, però, iniziarono ad essere limitati subito dopo il ritiro delle truppe, ricordano oggi vari ex ufficiali del Pentagono. “Iniziarono ad andarsene” afferma Winters, l’ex vicedirettore.
In un rapporto del 2013 l’ispettore generale del Pentagono affermò che i tagli portati avanti in maniera unilaterale su tali programmi erano dovuti a necessità economiche. Il dipartimento adottò principalmente una “direttiva dall’alto verso il basso nella quale i tagli venivano fatti sulla base delle percentuali e degli obiettivi assegnati alle varie agenzie, senza però considerare in modo adeguato le diverse nature delle operazioni e delle risorse che esse richiedevano” si legge nel report.
Una delle prime vittime di questo processo fu il supporto che gli Stati Uniti fornivano alle unità di contro-terrorismo irachene. Il numero di consulenti americani coinvolti in questo programma scese da più di 100 persone coinvolte prima del ritiro delle truppe a soltanto due uomini rimasti, stando a ciò che hanno dichiarato Winters ed altri ex ufficiali del Pentagono che servirono in Iraq.
Anche un altro programma chiave del Pentagono che aiutò il governo degli Stati Uniti a raccogliere e analizzare informazioni riguardo agli attacchi terroristici fu tagliato. Charles Bova, che dirigeva il progetto, ha affermato che la sua interruzione causò la perdita di un importante mezzo di comunicazione con l’Iraq che avrebbe potuto fornire sia agli americani che agli iracheni una “migliore consapevolezza di ciò che al-Qaida stava facendo in Iraq”.
Un centro di addestramento a Kirkuk fu chiuso, non soltanto per problemi di budget ma anche a causa dell’opposizione presentata dal governo sciita di Maliki che aveva iniziato a ribellarsi contro i programmi di assistenza americani concentrati principalmente nelle province sunnite e curde. Subito dopo il ritiro delle truppe, Maliki ordinò l’arresto dei suoi rivali politici sunniti e rimpiazzò i generali iracheni addestrati dall’esercito statunitense con alleati sciiti fedeli al Primo Ministro. Alcune delle persone personalmente nominate da Maliki avrebbero poi abbandonato il loro incarico quando lo Stato Islamico cominciò ad attaccare Mosul.
Le proteste dei sunniti contro Maliki cominciarono nel 2012 e, quasi in contemporanea, il numero di attentati suicidi in Iraq iniziò ad aumentare. I predecessori del terrorismo dello Stato Islamico si rafforzarono in tutto il paese, aiutati anche dal peggioramento delle tensioni settarie e dei combattimenti nella vicina Siria, dove la guerra civile offriva ai leader jihadisti una giusta causa ed un luogo appropriato in cui riorganizzarsi.
“Nessuno di noi pensava che il problema fosse stato eliminato — sapevamo che stavamo lasciando un vuoto” ha affermato Winters, proseguendo: “Ci aspettavamo che AQI sarebbe tornato più forte di prima, ma non pensavamo che questo sarebbe successo tanto rapidamente”.
Preoccupati a causa del peggioramento della sicurezza, Clinton ed altri consulenti di Obama iniziarono segretamente a fare pressioni sul governo iracheno perché accettasse nuove forme di assistenza che non limitassero il Dipartimento né dal punto di vista legale né finanziario.
A partire dalla fine del 2011 Clinton si affiancò all’allora direttore della CIA David H. Petraeus e ad altri ufficiali della Casa Bianca al fine di cercare di persuadere Maliki ad accettare una “fusione” delle cellule americane e irachene, costituite da esperti dei servizi segreti e delle forze per le Operazioni Speciali di entrambi i paesi, affermano ufficiali che presero parte in prima persona alle contrattazioni. Anche la Casa Bianca offrì a Maliki dei droni di sorveglianza per aiutare a tracciare i movimenti dei gruppi terroristici.
Gli iracheni si mostrarono favorevoli ad entrambe le iniziative ma non fecero nulla per implementarle. La possibilità di un rifornimento di droni americani in Iraq fu bocciata da Maliki dopo che la notizia fece la sua apparizioni sui canali mediatici. Entrambi i programmi furono in fine messi in atto, ma soltanto dopo che vari episodi di attentati suicidi portati avanti dallo Stato Islamico fecero vacillare la sicurezza di Baghdad.
“Era come uno di quegli incubi al rallentatore” ha detto Blinken, ufficiale del Dipartimento di Stato. “Noi stavamo smuovendo il nostro sistema, tentando di attivare il Congresso e gli Iracheni. Vedevamo che la minaccia si avvicinava, ci lavoravamo, ma il problema si rivelò più forte della soluzione che stavamo cercando di preparare”.
I tagli alla spesa, però, portarono anche ad un risultato positivo (sebbene inaspettato): un eccesso di fondi. Nel maggio 2012 il Dipartimento di Stato si ritrovò ad avere 1.6 miliardi di dollari che il Congresso aveva inizialmente stanziato per l’Iraq, decidendo poi di non utilizzare. Gli ufficiali del Dipartimento potevano ora reindirizzare quei fondi e, nel fare questo, spostare il denaro verso altre zone di conflitto come la Libia.
In un primo momento si pensò di utilizzare gran parte del denaro per la costruzione di un nuovo avamposto diplomatico a Bengasi, la città libica che Clinton aveva in programma di visitare verso la fine del 2012. Questa idea fu poi improvvisamente abbandonata dopo gli attacchi di Bengasi dell’11 settembre 2012 nei quali trovarono la morte quattro soldati americani.
L’obiettivo privilegiato
Il 4 giugno 2014 lo Stato Islamico conquistò Mosul. I terroristi vinsero contro l’esercito di difesa iracheno anche grazie al supporto delle tribù sunnite, che consideravano il controllo dei jihadisti preferibile a quello del governo sciita di Maliki.
Oggi è impossibile affermare con certezza se una migliore assistenza avrebbe potuto prevenire il collasso dei sistemi di sicurezza iracheni. Molti ufficiali attivi ora o al momento degli attacchi, inclusi alcuni fortemente a favore della permanenza di truppe americane nel paese, affermano che l’inappropriata gestione dell’esercito programmata da Maliki e la repressione della minoranza sunnita hanno fortemente indebolito il paese rendendolo vulnerabile al collasso. Se un centinaio di americani fossero stati presenti a Mosul nel 2014, dicono ancora questi ufficiali, essi sarebbero forse diventati l’obiettivo principale per l’esercito di terroristi che invase la città durante l’estate di quell’anno.
“Su questo le persone si illudono” ha affermato Nides, ex vicesegretario del Dipartimento di Stato. “Dal punto di vista pratico, ciò che abbiamo ottenuto sono 20 persone con una grande influenza sulla sicurezza. Queste saliranno sulle loro auto e andranno realmente a parlare con i capi delle tribù? Non credo proprio”.
In ogni caso, la presa di potere dello Stato Islamico ha convinto l’amministrazione Obama a ripristinare i programmi di sicurezza guidati dall’esercito che erano stati tagliati in seguito al ritiro delle truppe. Nel giro di poche settimane, 475 truppe americane furono inviate ad aiutare le forze di sicurezza irachene. Oggi, il numero ammonta a dieci volte tanto. Le preoccupazioni riguardanti il budget sono sfumate: il Congresso ha destinato miliardi di dollari alla lotta contro la minaccia jihadista.
Anche Hillary Clinton, candidata presidenziale, ha risposto alla crisi proponendo un piano dettagliato per sconfiggere lo Stato Islamico. Inizialmente ha incolpato Maliki, l’ex leader iracheno e suo alleato durante la transizione, per il risveglio del terrorismo sunnita. Alcune delle soluzioni da lei proposte miravano a migliorare i rapporti tra le tribù e i programmi di intelligence che erano stati limitati o eliminati nel corso dei tre anni precedenti.
“Dobbiamo lavorare in modo migliore per far ritornare in campo i sunniti” ha affermato Clinton durante un’intervista per ABC News nel 2015.
Clinton ha inoltre sottolineato la sua lunga esperienza nel campo ed ha sfruttato il suo ruolo nel settore della sicurezza nazionale come punto a favore durante la corsa alla Casa Bianca, facendo riferimento anche ad argomenti trattati nel suo libro Hard Choices (Scelte Difficili) in cui racconta la sua esperienza come Segretaria di Stato. Il libro è stato pubblicato proprio poche settimane dopo che Mosul cadde nelle mani dello Stato Islamico, provocando scandalo poiché in esso Clinton ammette di aver compiuto un errore nel 2002 votando a favore dell’invasione americana in Iraq dell’anno successivo. Il libro tace, in tutte le sue 635 pagine, su quant’altro è successo in Iraq durante il suo mandato.
L’articolo è stato co-scritto da Jeff Gerth di ProPublica e da Joby Warrick del Washington Post. Potete leggere la versione originale qui.
Traduzione di Laura Loguercio