Con l’avvio delle operazioni in Libia, Obama ha compiuto il passo che da mesi gli si chiedeva: intervenire per debellare le milizie che Daesh (ISIS) sta montando nel territorio nord africano al fine di ritagliarsi il suo spazio nel puzzle libico. Per capire cosa sta succedendo, occorre ricostruire qualche antefatto.
A metà febbraio 2011, all’interno della rivolta di Bengasi contro il regime di Gheddafi, la Cirenaica inizia a separarsi dalla Tripolitania, ritenendosi “liberata”. I francesi, parte attiva negli accadimenti, vedono di buon occhio l’eventuale spartizione del paese. Il governo italiano è in difficoltà: Berlusconi, allora primo ministro, non ha mai nascosto di voler mantenere in piedi il regime che ha sponsorizzato nei salotti buoni della politica internazionale, anche con quale risultato positivo in termini di stabilità regionale. Oltre agli interessi storici, l’Italia ha, in quel momento, quello di sterilizzare i flussi di emigrazione africana e mediorientale in partenza dalle coste libiche. Non si dimentichi, tuttavia, che l’Italia non era la sola nazione ad immaginare di poter intrattenere buone relazioni con il regime gheddafiano: nel marzo 2004 Tony Blair era stato a Tripoli, primo capo di governo britannico dal 1943, fornendo il segnale della definitiva ripresa di rapporti con i paesi dell’Unione Europea e l’occidente in genere. L’anno successivo erano state ristabilite le relazioni diplomatiche tra Gheddafi e gli Stati Uniti.
La risoluzione del Consiglio di Sicurezza arriva il 26 febbraio e fissa una serie di sanzioni. Un mese dopo, nella notte tra il 17 e il 18, il Consiglio di Sicurezza Onu autorizza la no fly zone contro le forze armate di Gheddafi, che stanno per conquistare l’ultimo ridotto dell’opposizione, Bengasi. Parigi, di fronte al rischio di veder andare in fumo il suo progetto, decide di intervenire dal cielo e fa bombardare. In un vertice nella capitale francese tra i “volenterosi” di turno, con due paesi arabi al tavolo, Iraq e Giordania, si decide che il comando dell’operazione per il definitivo smantellamento del regime di Gheddafi sia fissato a Napoli, presso il quartier generale Nato del Mediterraneo, e che le basi di Sigonella e Trapani siano coinvolte.
A fine agosto, da Tripoli, Gheddafi chiede di trattare, ma riceve il secco no degli oppositori. Ci sono già stati tra i 20.000 e i 50.000 morti, e tra i 200.000 e i 500.000 feriti, su una popolazione di 6 milioni di persone: tornare indietro è impossibile. Il dittatore, ferito da aerei Nato mentre fugge, sarà ucciso a freddo il 20 ottobre a Sirte, dove cerca riparo presso la sua tribù. Festa e giubilo la sera nelle strade di Libia. In tantissimi tra la popolazione prendono i kalashnikov nascosti ed esplodono colpi in aria in segno di giubilo. La mattina dopo molte di quelle armi si mettono al servizio delle milizie che da mesi si stanno spartendo il territorio, nel clima di anarchia generalizzata. Il puzzle libico è pronto per l’uso: le tesserine sono una miriade, di complicatissima ricomposizione.

La Libia “liberata” è preda di bande tribali e non solo. Spaccata nei tre grandi tronconi che la compongono (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan), è ulteriormente parcellizzata da locali signorotti della guerra e del malaffare. Il traffico di petrolio, armi, droghe, schiavi e prostituzione, esseri umani che vogliono emigrare in Europa via Italia, fornisce una mole impressionante di opportunità per fare denaro illecito, in una situazione nella quale il fallito stato unitario non è in grado di garantire nessuna forma sostanziale di ordine e controllo.
Solo a fine marzo 2016, le Nazioni Unite sono in grado di installare a Tripoli un Consiglio presidenziale che, a nome della comunità internazionale, ripristini la forza della legge nell’intero paese. Il tentativo è affidato a Fayez al Sarraj, lo stesso uomo che giorni fa ha chiesto a Washington di bombardare Sirte e le milizie di Daesh. Il sì americano significa che Obama lo ha scelto come alleato contro gli altri pretendenti in campo.
Molte possono essere le domande sulla situazione attuale. Alcune delle risposte vanno considerate puramente deduttive, ovvero basate sull’assunto arbitrario che senza l’intervento della comunità internazionale la crisi libica non possa avere soluzione positiva evitando a Daesh di creare un altro punto per l’espansione nel Mediterraneo verso l’Europa.
La prima domanda riguarda l’impegno statunitense, e chiede quale sia l’interesse nazionale tutelato dai raid di caccia e droni a stelle e strisce. Va innanzitutto detto che Washington ha risposto positivamente alla sollecitazione giunta dal governo di al Sarraj. In questo modo ha esercitato il ruolo di garante dell’attuale sistema internazionale, finalizzandolo alla stabilizzazione del Mediterraneo e al progresso della pacificazione libica sponsorizzata dall’Onu. Con un po’ di memoria storica e con le debite differenze del caso, l’azione, nella sua natura, non è lontana da quella condotta ad inizio ottocento dalla marina statunitense nelle due guerre barbaresche. Anche allora si discettò su quanto gli interventi armati, i primi fuori dal continente americano, riguardassero l’interesse nazionale, in un Senato memore del perentorio testamento di George Washington a star fuori dalle “entangling alliances” estere. In particolare grazie alla ferma volontà di Thomas Jefferson, si comprese che i cinque bombardamenti di Tripoli della U.S. Navy erano indispensabili al ristabilimento della libertà di transito e commercio nel Mediterraneo centrale. In quell’occasione la giovane nazione americana meritò i complimenti di Horace Nelson, ammiraglio di Sua Maestà britannica, che lodò “il coraggio fuori dal comune” dei marines.
La seconda domanda ci riguarda direttamente, visto che il governo italiano ha detto in parlamento, attraverso il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che “il successo della lotta tesa all’eliminazione delle basi dell’Is sia di fondamentale importanza non solo per la sicurezza della Libia ma anche dell’Europa e dell’Italia”. Se così è, ci ritroveremo, volenti o nolenti, dentro il puzzle libico e ne costituiremo una delle tessere per la sua ricomposizione. Intanto concediamo le basi per i voli statunitensi che vanno a bombardare Sirte a 700 chilometri dalle nostre coste, poi chissà manderemo qualche corpo per operazioni di terra, e soprattutto continueremo a vigilare sul traffico di esseri umani dalle sponde libiche. Ci ritroveremo contro non solo Daesh, che già da tempo ci ha fatto sapere di avere comunque il fucile puntato su di noi con il grilletto pronto, ma i pezzi di Libia che non riconoscono il potere di Fayez al-Serraj, ad esempio il prlamento di Tobruk, contrario alle azioni statunitensi in corso. Quasi a tacitarci, preoccupata anche per le conseguenze che potrebbe rivestire per noi la minacciata denuncia turca dell’accordo sui migranti raggiunto con l’Unione europea prima del recente colpo di stato, Bruxelles, ascoltata la nostra disponibilità sulla Libia, si è affrettata a prometterci, attraverso il commissario all’immigrazione Dimitris Avramopoulos, più soldi e uomini. Peccato non abbia detto nulla, ai preoccupati italiani, su quanto gli accadimenti libici potranno spostare in termini di sicurezza (a quando l’autentica collaborazione sovranazionale tra polizie nazionali?) e di redistribuzione attraverso l’Ue dei profughi incrementali che eventualmente sbarcheranno sulle nostre coste (a quando, il funzionamento del meccanismo di ricollocamento per quote nazionali)?
La terza domanda riguarda il risultato atteso dall’intervento. Se sono giuste le informazioni disponibili, è abbondantemente sotto il migliaio il numero di miliziani Daesh asserragliato a Sirte. Vogliono con evidenza condizionare l’evoluzione politica interna alla Libia, per poi utilizzare il paese, o parte di esso, come piattaforma per allargare il territorio sotto controllo Daesh, costituendo verso il ponente arabo mediterraneo il pendant alla posizione di levante siro-irachena. Supponendo il successo dell’azione americana, con appoggio italiano, essa avrà certamente innescato focolai addizionali di terrorismo internazionale attraverso miliziani in fuga verso l’Europa e nuovi adepti generati dal sangue dei cosiddetti martiri dell’islam. E cosa avrà prodotto sul piano del puzzle libico? Forse ulteriori tesserine da ricomporre, visto che la fronda contro al-Serraj potrebbe alzare ulteriormente il livello di guardia. E’ troppo chiedere che si tratti seriamente con il dissenziente generale Khalifa Haftar, signore di Bengasi, scoraggiandolo dal ritenere che l’appoggio di Francia ed Egitto posta conquistargli il potere?
Constatazione che porta all’ultima osservazione. Come di prassi dall’11 settembre, la comunità internazionale risponde ad una crisi non con gli strumenti multilaterali messi a disposizione dalle organizzazioni internazionali, ma con gli strumenti antichi delle alleanze bilaterali pro-tempore allargate a volenterosi che ritengono di ricavarne qualcosa. Il risultato è l’accentuarsi delle divisioni, non la loro ricomposizione. Nel caso libico, si stanno formando, dietro le ambizioni locali e regionali di Francia e Italia, sistemi di alleanza che, una volta spazzata via la minaccia Daesh, dovranno o scontrarsi o ricomporsi in sintesi accettabile dalle parti in contesa.
Il che risulta preoccupante. Da un lato gli Stati Uniti, proseguendo la politica inaugurata da George W. Bush, preferiscono avere mani libere e non rendere conto delle loro azioni ad alleati dei quali non hanno bisogno e probabilmente non si fidano. Dall’altro paesi come Italia e Francia, in parte Gran Bretagna, scantonano dalla stabilizzazione regionale euro-mediterranea, e ripescano ambizioni nazionali che puzzano di neo-colonialismo o neo-imperialismo d’accatto. L’Italia, peraltro, nell’assenza d’iniziativa Ue, si ritrova a rimorchio degli Stati Uniti, prospettiva non esattamente eccitante perché giustamente Washington farà i propri interessi, non quelli di Roma.
Invece di spingere per l’unificazione del paese sotto bandiera Onu, Parigi, per ritagliarsi una propria sfera di influenza, da anni briga per riprodurre in Libia processi che hanno già diviso paesi come Cipro, Armenia, Ucraina, Georgia, Serbia, Iraq, Palestina, e che potrebbero un domani neppure lontano estendersi ad altre situazioni instabili, ad iniziare da Siria e appunto Libia. Così si riportano indietro le lancette della storia. Gli stati falliti si presentano come tavole imbandite per gli appetiti delle potenze: che sia un bene per le popolazioni locali e più in generale per la pace e lo sviluppo regionale, è altra cosa.
Serva, il riferimento alla nemesi della storia, da monito alle nazioni coinvolte. Quando Thomas Jefferson armò con successo la marina statunitense contro le scorrerie e i taglieggiamenti libici, gli americani conquistarono via terra Derna. Recentemente, per qualche mese, proprio quella città si è costituita in capitale del Daesh.