La “notizia”, innanzitutto, com’è sempre bene cominciare: fra pochi giorni, alla Camera dei Comuni inglese potrebbe cominciare il “processo” all’ex premier Tony Blair per il ruolo svolto nell’ambito della seconda guerra in Irak, severamente giudicato e condannato dal rapporto redatto dalla commissione presieduta da sir John Chilcot.
Un deputato inglese, David Davies fa sapere che intende presentare una risoluzione contro Blair, accusandolo di “dispregio del Parlamento” per aver portato il paese in guerra senza che il potere legislativo fosse sufficientemente informato dei dubbi sulla legalità del conflitto. Contemporaneamente John Prescott, ex vice-premier laburista all’epoca di Blair, sostiene che la guerra, per la quale ha votato a favore, è stata “illegale”.
Un voto accusatorio da parte del Parlamento di Londra probabilmente è destinato a non avere alcuna pratica conseguenza giuridica. Dal punto di vista politico è cosa comunque imbarazzante. Un qualcosa destinato a “pesare”.
Conviene a questo punto cercare di capire in che cosa consiste questo rapporto Chilcot, sette anni di lavoro che hanno prodotto un mastodontico dossier. Il rapporto definisce l’intervento in Irak “affrettato”; vi si legge che si potevano e dovevano considerare altre opzioni pacifiche prima di entrare in guerra, e che l’intervento non era l’ultima possibilità. Secondo il rapporto le circostanze nelle quali fu deciso che c’era un fondamento legale per un intervento militare sono “tutt’altro che soddisfacenti”.
Ancora: i servizi segreti non avevano stabilito “al di là di ogni ragionevole dubbio” che Saddam era in possesso di armi di distruzione di massa. “A nessun livello è stata esaminata la possibilità che l’Irak potesse non avere armi o programmi chimici, biologici o nucleari”.
Falso, inoltre, che non si poteva prevedere la rapida ascesa del terrorismo. Blair fu messo in guardia sulla minaccia che le attività dial Qaeda potessero aumentare, in seguito all’invasione. Era stato avvertito del pericolo che gli armamenti dell’esercito iracheno potessero finire nelle mani dei terroristi una volta distrutto il regime. Sapeva che le conseguenze negative si sarebbero protratte.
A questo punto, riavvolgiamo il nastro della memoria, andiamo al 19 marzo 2003. Dalla Casa Bianca, in video-conferenza il presidente americano George W. Bush si rivolge al suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld: “Signor ministro, per la pace nel mondo e per il bene della libertà del popolo iracheno, do l’ordine di avviare l’operazione ‘Irak freedom’. Dio benedica le truppe”.

Comincia così la seconda guerra contro Saddam; guerra da Bush e dalla sua amministrazione fortissimamente voluta, e che vide accodarsi Blair, Silvio Berlusconi e tanti altri della famosa coalizione dei “volenterosi”. Cosa poi accade, lo sappiamo: conquistata Bagdad, rovesciato il regime, giustiziato Saddam, quell’area di mondo continua a essere tormentata e dilaniata da mille sanguinose lotte di faida. Che Bush e Blair abbiano mentito ai loro popoli e al mondo per scatenare la guerra è acclarato; ricordiamo bene il segretario di Stato Colin Powell all’ONU, il 5 febbraio 2003: mostra le “prove” della pericolosità dell’armamento iracheno. Cinque anni dopo, è il 2008, Powell ammette che quel giorno l’ha vissuto come “l’umiliazione più terribile della mia vita”: quelle prove erano fasulle, inventate di sana pianta, per giustificare l’intervento.
Menzogna, dunque, e non solo. L’amministrazione americana fa sparire una quantità di documenti elettronici di rilievo storico per sapere l’intera verità. Vengono cancellate migliaia di e-mail scambiate tra Casa Bianca, Pentagono, CIA e Dipartimento di Stato; spariti interi files che avrebbero comprovato le manipolazioni mirate a giustificare l’invasione; distrutti i video che documentavano i metodi ‘muscolari’ usati dalla CIA per interrogare i detenuti; scomparse intere giornate di comunicazioni in entrata ed uscita dalla Casa Bianca…
Fatti di inaudita gravità. Il Presidential Records Act impone alle amministrazioni di consegnare ogni documento agli Archivi Nazionali, che ne devono “curare la custodia, il controllo e la conservazione”. Solo i documenti lesivi per il buon nome degli ex presidenti o dei loro consiglieri possono essere trattenuti (ma non distrutti) per dodici anni prima di essere depositati. Tuttavia appena insediato Bush emana un decreto esecutivo che autorizza a trattenere ‘indefinitamente’ qualsiasi dossier in suo possesso… Trattenere, tuttavia non significa distruggere. E questo dovrebbe valere anche se Cheney, nell’inchiesta aperta a suo carico all’inizio del 2009 – e insabbiata – rivendica il diritto di essere “il solo competente a decidere quali documenti sono da considerare vice-presidenziali e quali personali”, ossia non trasferibili negli Archivi Nazionali.
Qui siamo, evidentemente, nel campo dell’alto tradimento. Che in America, ancora scottati dalla vicenda Richard Nixon e dal suo traumatico impeachment, si preferisca soprassedere, e si sia siglato un tacito patto tra democratici e repubblicani (tanto più che entrambi i partiti erano schieratissimi per l’intervento); che si abbia il timore che troppi imbarazzanti “altarini” possano essere scoperchiati, è cosa che si può ben comprendere. Tutto “logico”, insomma. Ma certo non è giusto, e chi “copre” si assume una grave responsabilità politica e storica, al pari di chi dopo aver sostenuto il falso ha nascosto e distrutto le prove della macchinazione.
Insomma: si può concludere con sufficiente certezza che la guerra del 2003 poteva essere evitata. Non solo perché le due ragioni principali per giustificare l’attacco non erano vere: non c’erano armi di distruzione di massa e neppure impossibili abbracci strategici tra Saddam Hussein e il vertice di Al-Qaeda, ma perché fu fatta fallire la più realistica delle soluzioni: l’esilio del dittatore iracheno. Se questa strada fosse stata seguita si sarebbero evitate decine di migliaia di vittime da una parte e dall’altra, e forse oggi il paese sarebbe meno instabile di quel che non sia. Tanto più che Saddam era disponibile ad accettare l’esilio; come condizione aveva solo posto che la richiesta non venisse da parte “occidentale”, ma dalla Lega araba.
Per questo motivo nel marzo del 2003 si svolge un vertice straordinario della Lega araba a Sharm el-Sheik; e qui si dispone di una testimonianza in diretta, quella dell’inviato del “Corriere della Sera” Antonio Ferrari: “La proposta, presentata dagli Emirati Arabi, doveva essere approvata. Chi mandò tutto all’aria, con una sceneggiata che seguimmo prima in diretta televisiva dall’ufficio stampa di Sharm el-Sheik e poi ascoltammo, con l’aiuto dell’interprete, senza vedere più nulla perché la tv egiziana si era dimenticata di spegnere l’audio, o forse lo aveva lasciato aperto perché tutti potessero capire. La provocazione di Gheddafi che fece il diavolo a quattro, compresi i pesanti interventi delle sue guardie del corpo donne, indebolì la volontà dei fratelli e la proposta dell’esilio si diluì, anzi si spense in un generico e pavido “bla bla”. Nessuno può dire che cosa sarebbe successo se la proposta dell’esilio a Saddam fosse stata sostenuta con vigore. L’attacco all’Irak, voluto da troppi a tutti i costi, avvenne il 19 marzo e sappiamo tutti come è andata a finire”.
Com’è finita, sì. Ma ancora non sappiamo come è cominciata. Quanto al perché, a suo tempo si scandiva lo slogan: “No blood for oil”. Temo si sia sottovalutato il ruolo da sempre giocato dalla fortissima lobby del complesso militar-industriale statunitense. Giocato allora, e probabilmente anche ora, e in grado di mettere a tacere tantissime voci. E’ già accaduto, accadrà ancora. Non per questo bisogna stancarsi di cercare la verità e dirla. “Wehajà he’akos lemishor”, ci insegna il premio Nobel Shmuel Yoseph Agnon: “E il torto diventerà diritto”.