Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la quasi-bambina di tredici anni scomparsa il 26 Novembre 2010, dopo essere uscita dalla palestra di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, che frequentava da ginnasta: le sue spoglie, martoriate, sono state rinvenute il 26 Febbraio 2011. Si è diffusamente scritto che questo processo è stato “DNA-centrico”, secondo l’espressione usata da uno dei difensori dell’imputato. Ed è vero. Ma non è tutto. Bisogna cercare d’intendere perchè questo tema, che si dice scientifico, abbia assunto un valore così preponderante; e se i requisiti che gli hanno conferito PM, Parte Civile e, ormai, si può senz’altro ritenere anche la Corte di Assise di Bergamo, in termini di “infallibilità”, “certezza”, “perfezione”, non tradiscano un affidamento irrazionale e ideologico: tale, pertanto, da rifuggire alle incrinature, ai dubbi, più imponendosi come un dogma che proponendosi come un accertamento.
Che il DNA attribuito a Bossetti fosse prova “sicura” oltre ogni dubbio, in realtà non doveva essere ritenuto nemmeno dal PM, se, fino a quando ha potuto, ha energicamente insistito anche su due altri elementi: il c.d. movente, e la circostanza, presentata come “obiettiva”, “storica”, che l’imputato per circa 45 minuti, col suo furgone Iveco Daily, si fosse aggirato per l’isolato in cui era ubicata la palestra: come “il predatore che si mette a caccia della sua preda”, secondo l’immaginifica espressione accusatoria. C’è un video; anzi, due.

E’ noto che il filmato dei Carabinieri offerto alla fruizione extraprocessuale si è rivelato materialmente falso. Occorre a questo proposito precisare due circostanze: la prima è che il “montaggio” è stato ammesso dallo stesso autore. Il Colonnello Giampiero Lago: “Questo video è stato concordato con la procura… È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa”; la seconda circostanza è che questa non-prova è stata costruita dopo il 16 Giugno 2014, il giorno in cui era stato raccolto il DNA di Bossetti: per es., il TGcom lo ha diffuso il 2 marzo 2015. La Procura ha replicato che questo video, nella versione offerta ai media, non è poi stato formalmente prodotto in Corte d’Assise come prova; e, che, invece, agli atti del processo ci sono le riprese “vere”, tratte dalle videocamere di sorveglianza della Ditta Polynt, ubicata vicino alla palestra. E, così argomentando, ha sollevato più questioni di quante ne abbia risolte. Giacchè, l’osservatore rimane sgomento nell’apprendere che strumenti investigativi possano essere piegati ad esigenze propagandistiche: cioè di manipolazione psicologica di massa, o pubblica opinione che dir si voglia (in realtà, resa incapace di avere un’opinione proprio dallo studiato “accorgimento”, e dunque, ridotta a suo inerte destinatario); e tuttavia, senza che la “centralità” del DNA, come prova regina, ne sia stata rinvigorita. E, anzi, risultando ribadito, implicitamente ma univocamente, che la Procura per prima avvertiva la necessità di puntellare l’arsenale probatorio “biologico”: addirittura ricorrendo a simili stratagemmi.
Quanto alle riprese probatorie (e non pubblicitarie), la Difesa ha osservato che sul cassone del furgone comparso in video, e attribuito a Bossetti, c’è un accessorio, c.d. campata, cioè una barra trasversale che attraversa il veicolo per la sua larghezza, eretta ad una certa altezza, chiaramente visibile dalle riprese; quella particolare sagoma si spiega considerando che questa barra è di solito regolabile in altezza; però sul furgone certamente di Bossetti, perchè sequestrato ed in custodia giudiziaria, la barra è saldata, ed è più bassa. Inoltre, il furgone reale di Bossetti ha il cassone lungo 3,45 m, quello sul video, una lunghezza stimata di 3 m, e gli inquirenti, prima che lo facesse la difesa, non avevano eseguito alcuna stima. Il colore è verde acqua, mentre nelle riprese, in bianco è nero, risulta bianco. Ed infine, l’Accusa aveva isolato cinque furgoni simili a quello sequestrato a Bossetti, e aveva interrogato i rispettivi proprietari; ma la Difesa ha trovato altri otto furgoni simili, appartenenti a persone residenti nella provincia di Bergamo. Perciò ha dubitato anche dei “frame” finiti nel processo.
La presenza fisica sui luoghi del delitto è stata inoltre riproposta attraverso una testimonianza che illustra ulteriormente, da un lato, l’insufficiente “centralità” del DNA per la stessa Accusa e, dall’altro, come i mezzi di prova, su questo specifico punto “spaziale”, quando non sono stati “montati” e poi “smontati”, sono stati in compenso strizzati fino all’estenuazione, nonostante avessero poco da offrire.
E così, una cameriera di un locale che Bossetti era solito frequentare, Antonella Ornago, in dibattimento ha riferito di aver captato, un giorno di sei o sette anni prima, mentre serviva ai tavoli, una conversazione fra lo stesso Bossetti ed un’altra persona, “un certo Rudi”, amico del primo: rievocando la loro adolescenza, “Rudi”, ad un certo punto, avrebbe ricordato il tempo in cui ”andavamo a ballare in quella discoteca..a Chignolo”. Nella località Chignolo è situata la discoteca “Sabbie Mobili”, da cui ha preso le mosse il “censimento genetico” che ha condotto a Bossetti; di fronte, c’è il campo in cui è stato ritrovato il cadavere di Yara. Solo che la cameriera non pronunzia il nome della discoteca, pur avendo sentito parlare di una discoteca “Sabbie mobili dalle mie parti”: “parti”, che sono però distanti da Chignolo. Peraltro, è stato accertato che l’ingresso in quella discoteca era nominativo, per tessera, e che nessuno ha mai visto Bossetti a Chignolo ballare. Si chiarisce l’arcano solo quando la difesa fa constare che la discoteca “Sabbie Mobili”, nel periodo in cui Bossetti era adolescente, dal 1984 al 1990 (egli è del 1970) aveva due “sedi”, per così dire: una a Chignolo, e un’altra “dalle parti” della cameriera. Bene.
Ma questa girandola non deve far dimenticare, in primo luogo, che una persona afferma semplicemente di aver orecchiato, sei o sette anni prima, da una conversazione fra Bossetti e una persona rimasta senza nome che, in un periodo compreso fra circa trenta e venticinque anni fa, l’imputato frequentava una discoteca che, pur con lo stesso nome, era diversa da quella oggetto d’indagine trent’anni dopo; ed in secondo luogo, che questa c.d. “circostanza”, secondo l’Accusa, concorrerebbe a dimostrare che Bossetti si sarebbe potuto trovare in luoghi pertinenti alle indagini. Vedete un po’ voi. In ogni caso, se questo è un puntello, resta che il DNA ne aveva (e ne avrebbe) bisogno. Con buona pace della sua “centralità”.
Anche al movente (ed in sè, s’intende, la ricerca è irreprensibile) è stata attribuita molta importanza. Si è supposta la frustrazione di un uomo che aveva “litigi” con la moglie; e che tentava senza risultati di fare il gigione per consolarsi. Di questi litigi, culminati in un proponimento di divorzio, emergerebbero dalla testimonianza di un ex compagno di lavoro di Bossetti, Ennio Panzeri. Il quale ammette motivi piuttosto decisi di rancore verso lo stesso Bossetti: gli aveva promesso, dice, di aiutarlo nell’esecuzione di un buon lavoro (la costruzione di una casa), piantandolo però in asso, e facendogli perdere lavoro e guadagno. Si saprà poi, che Bossetti si era rifiutato perchè il committente gli doveva ancora il pagamento di altre opere già eseguite, e, perciò, non voleva esporsi ulteriormente. Panzeri riferisce che, per questa ragione, e per qualche “balla” (si era “vantato” di essersi rifatto il naso, bugia, e si era commiserato per avere un tumore alla testa, altra bugia), Bossetti era soprannominato “il favola”. Inaffidabile: dunque, sinistramente introverso, ed in cerca di compensazioni: fantasiose, ma anche delittuose, all’occorrenza. Infatti, secondo Panzeri, Bossetti era anche pericoloso, poichè gli avrebbe confidato, prima della loro rottura lavorativa, di aver pensato, appunto, anche al divorzio, dopo essere venuto alle mani con la moglie.
Quanto al Bossetti-cascamorto, oltre ad avanzare quest’ipotesi investigativo-caratteriale anche rispetto alla cameriera, che risponde con un “No” secco, il PM aveva supposto di poter ottenere la testimonianza di due presunti amanti della moglie: ma la Corte di Assise non ha ammesso la prova, perchè irrilevante o non pertinente. Però l’allusione tematica è rimasta. Tanto che si è tentato di dimostarla con un’altra testimone, Eva Ravasi, bella e procace: su subito.it, Bossetti aveva messo in vendita uno specchio, presentato con cornice di legno, a 35 euro; all’appuntamento, Bossetti le propone di fargli da segretaria; la donna declina, suggerisce che si potrebbe pensare alla sorella; “Ma è bella come te?”, chiede il Nostro, e amen. Peraltro, tornata a casa, Eva Ravasi si accorge che la cornice era di plastica e non di legno: un seduttore.
Ma se si cerca un movente, in una turbolenza caratteriale e psicologica, e poi gli elementi da cui sarebbe implicata, o sono poco meno che azzardi (avances alla cameriera), o congetture di dubbia rilevanza (Eva Ravasi e lo specchio), o non sono nemmeno ammessi in dibattimento (i presunti amanti della moglie), o provengono da un testimone animoso (l’ex socio, che riferisce di generici attriti con la moglie, presupposto sia del segreto rancore, sia dei tentativi di “consolazione”), il risultato è che il movente rimane ignoto. Come nemmeno lontanamente dimostrata è la presenza fisica di Bossetti nei luoghi fondamentali, o comunque pertinenti, del fatto: discoteca e palestra.
Ecco che allora, il DNA, da elemento abbisognevole di sostegno, mancato il sostegno, si riscopre autonomo: nato ad uno splendore probatorio solitario. La sua “centralità” nasce qui.
E’ inopportuno indugiare lungamente sul microscopico, quando non è ben definito il macroscopico. E, tuttavia, si è ampiamente scritto: che il DNA è di tue tipi, “nucleare” e “mitocondriale”; che il primo viene dal padre, il secondo, dalla madre; che il DNA paterno di Bossetti/Guerinoni ci sarebbe, e che quello materno senz’altro non c’è. Ora, ha rilevato la difesa che questa condizione probatoria equivarrebbe ad avere individuato una nuca, ma senza conoscerne il volto. Ma, anche ammesso che così non sia, e che conti solo il DNA “nucleare”, come sostiene l’Accusa, il punto è che anche la raccolta del DNA “buono” è dubbia.
Secondo un principio ribadito di recente anche nella sentenza Meredith/Sollecito, la prova del DNA, per essere tale, va ripetuta tre volte. Una volta, per disegnare la struttura del DNA in almeno 13 caratteri; la seconda, per determinare il sesso; e la terza, per fissare quella parte della sequenza (le c.d. “eliche”) che identifica il genitore, il c.d. Aplotipo Y. Dal famoso reperto G20 (un brandello degli slip di Yara), il più importante, su cui si sostiene siano presente tracce biologiche ulteriori rispetto a quelle della bambina, si è tratto il materiale: ma nessuno dei due ufficiali del Ris (Reparti investigazioni scientifiche) dell’Arma, Capitani Nicola Staiti e Fabiano Gentile, autori delle indagini scientifiche, ha potuto confermare che le ripetizioni ci siano state.
Per capire meglio questo punto, si deve rilevare che l’esame del DNA avviene per “confinamenti” successivi: prima, si acquisiscono i dati molecolari grezzi, c.d. raw data; e poi, su questi, si compie una selezione di quelli ritenuti significativi; si è rilevato che il rapporto fra i due tipi di dati, è simile a quello che c’è tra una radiografia e un referto. Essendosi esaurito il campione, e poichè il prelievo del DNA dal reperto G20 è stato compiuto quando Bossetti non era indagato, anzi, non era nemmeno conosciuto, l’affidabilità ne è stata ridimensionata. Meglio ancora: chi subisce un ergastolo ha diritto di saperne di più, e di essere messo in condizione di interloquire quando i materiali-ergastolo si formano. Specialmente, se si considera che i dati grezzi, secondo gli stessi ufficiali dei Ris, non sono stati custoditi separatamente da quelli riguardanti altre indagini: “quei dati sono misti ad altre pratiche…quelle di altri esami di altri casi”: più di 16.000, ha voluto precisare il PM. Il dubbio che solleva la Difesa, è che siano stati sovrapposti proprio un Aplotipo Y, quello sull’identità del padre, proveniente da altri materiali biologici, e le risultanze sul sesso e sulla struttura, che sarebbero invece di Bossetti.
E, così, nè si può ripetere l’esame sui materiali selezionati, nè si possono esaminare almeno quelli di partenza: perchè non si è certi della loro purezza. Inoltre, è emerso che potrebbero essere stati impiegati dei kit di analisi scaduti. Il Tenente-Colonnello Marco Pizzamiglio, pur volendo precisare che le scadenze dei kit sono infondatamente “strette”, solo per strategie commerciali dei produttori, alla domanda se si usano kit scaduti, ammette: “Sì, può capitare”; e per Bossetti, si può sapere?: “No, l’operazione del kit non viene tracciata, non è possibile saperlo”. L’affermazione sul valore delle scadenze è eminentemente casuale: l’unica garanzia sarebbe, allora, rispettarle e basta. Dunque, un complesso di risultanze “scientifiche” non proprio rassicurante.
In estrema sintesi, questo è.
Spesso, si trascura di considerare che il principio: “Nel dubbio, in favore dell’accusato”, non è un’immonda scappatoia per sfuggire alle proprie responsabilità; ma una saggia e sofferta regola, pensata per evitare, a chi condanna, di scivolare sull’incertezza: e di precipitare nel buio della peggiore sopraffazione legale: quella che rischia di avere scelto “un colpevole”, ignorando “il colpevole”.