Con gli assalti del 1 luglio al ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca e del 28 giugno all’aeroporto Ataturk di Istanbul, il jihadismo di Daesh ribadisce di avere un odio rancoroso tutto speciale per tre tipi di soggetti: i governi di paesi a maggioranza islamica che ne ostacolano i progetti di espansione territoriale, gli occidentali e le loro potenze politiche ed economiche, i turisti e i clienti dei locali di svago.
Se i primi due obiettivi possono essere, benché impropriamente, definiti “politici”, nella guerra che Daesh ha unilateralmente dichiarato e che prosegue a intensificare nonostante le evidenti sconfitte nei territori dove fa sventolare la sua bandiera, il terzo è a carattere soprattutto “culturale” e “morale”, e chiede approfondimenti per una serie di ragioni.
La prima è che sia gli stati che le grandi imprese che operano in zone a rischio Daesh hanno da tempo assunto contromisure di difesa/offesa, in più occasioni mostratesi efficaci. Non può accadere lo stesso per turisti e avventori di locali, come mostra la lunga serie di assassini compiuti dai miliziani e avventizi di Daesh ai quattro lati del mondo. La seconda che mentre nelle prime due categorie l’azione di Daesh può rientrare, anche se con un certo sforzo intellettuale, nella categoria dell’azione “politica” (escludendone comunque la legittimazione sul piano del diritto internazionale, e ci mancherebbe!), nel caso degli attacchi ad esseri umani che nulla hanno a che spartire con le logiche di stati e grandi gruppi economici, siamo nel campo del puro assassinio e sterminio, che nessuna ideologia o religione potranno mai motivare o giustificare!
Occorre interrogarsi sul perché Daesh colpisca duramente e continuativamente turismo e locali di svago, per capire se le azioni siano un frutto stagionale del jihadismo, o al contrario si tratti di fenomeno strategico.

C’è un elemento strategico, e riguarda i paesi a maggioranza islamica. Colpirne turismo e visite di stranieri, in particolare dei non islamici, ha un triplo effetto strategico: crea una cattiva opinione del governo e ne mette in difficoltà gli apparati di propaganda, dissecca gli ingressi di valuta estera indebolendo le finanze pubbliche e gli operatori privati del turismo, allontana le presenze estere lasciando le popolazioni sole di fronte alla scelta tra lealismo e adesione alla jihad. Nei fatti, le azioni prima di al Qaeda poi di Daesh hanno mortificato lo sviluppo turistico e le entrate valutarie di intere regioni di nord Africa e Oriente medio, gettando nella disperazione chi, tra pubblico e privato, aveva investito in costosissime strutture di accoglienza e tutto il vasto indotto di servizi e forniture collegati alla fruizione del tempo libero.
C’è un elemento culturale e morale, e riguarda i paesi con popolazione a maggioranza non islamica. Apparentemente, gli adepti del califfato islamista, considerando quasi compiuta la missione distruttiva tra Africa e Medio Oriente, stanno trasferendo verso Europa e Asia l’attacco al settore turismo e tempo libero, utilizzando le vie storiche percorse dall’offensiva islamica negli scorsi secoli. Sotto tiro è la “scandalosa” industria del viaggio e dello svago, soprattutto occidentale. La novità riguarda in via diretta e immediata la nostra vita di ogni giorno, ad esempio le decisioni che in questo periodo le famiglie assumono su vacanze e viaggi estivi. Di fronte abbiamo l’atteggiamento monomaniacale e savonaroliano di fanatici moralisti armati e assassini, che detestano e insieme invidiano il nostro stile di vita e, per non saperne godere, intendono distruggerlo.
Diversi studiosi del jihadismo concordano nel ritenere che Daesh esprima contemporaneamente il riflesso penitenziale che aborre consumi e turismo, e la convinzione che colpire il turismo come fonte di valuta pregiata metta in ginocchio il paesi sotto attacco. Convinzioni e istintualità psicologico-morali si sommano a considerazioni finanziarie e commerciali, generando il micidiale cocktail esplosivo degli attentati.
Combinazione vuole che mi sia trovato, giorni fa, ad essere tra i relatori che hanno presentato, alla Società Geografica Italiana, “Turismo e terrorismo jihadista”, libro di Nicolò Costa, sociologo del turismo e dello sviluppo locale, uscito da Rubbettino a metà giugno. Il sottotitolo, “I valori liberali della vita mobile e i nuovi nemici della società aperta”, dice con chiarezza da che parte si collochi l’autore, convinto che l’edonismo del viaggio aperto e consumistico sia uno dei modi più giusti per conferire senso e gioia alla vita umana.
Comprensibile e condivisibile, la presa di posizione, giusta e ben argomentata nel volumetto, non porta alla piena comprensione sul come possa mettersi in campo la strategia efficace di opposizione alla violenza islamista contro turismo e uso ludico del tempo libero. Come mi è accaduto di fare nel dibattito al quale faccio riferimento, introdurrei nell’analisi alcuni spunti sui quale l’autore ha preferito sorvolare, forse per scelta ideologica.
Il retroterra religioso, innanzitutto. Per quanto banda di assassini, Daesh è tuttora uno stato (non riconosciuto) con proprie istituzioni e una legislazione fondata sulla sharia o legge coranica. In quel contesto dove principi religiosi e leggi coincidono, il termine, tutto morale, “peccato”, coincide con quello di “colpa” e religiosa e giuridica. Quella colpa può essere veniale o “mortale”, comportando dosi di castigo e pena proporzionate. La filiera religiosa e culturale (ma ad immediato contenuto giuridico) di termini collegati, continua con i vari espiazione attraverso la penitenza, giudici e giudicato, e così via peccando e punendo.
Si dà il caso che l’islamista duro e puro ritenga che con il turismo si commetta una lunga serie di peccati tutti meritevoli di castigo, sino a quello estremo che riguarda la sottrazione della vita. I fedeli di religione islamica peccano, nel viaggio, abbigliandosi con maggiore libertà, rinunciando alle preghiere all’igiene e alla dieta rituali, recandosi nei luoghi “peccaminosi” degli infedeli o consentendo loro di profanare, visitandoli, territori ritenuti esclusivi dei maomettani.
Soprattutto si pecca nella contaminazione culturale e consumistica che il viaggio e il turismo generano. Se l’occhio non vede, il cuore non duole. Ma cosa accade quando l’occhio del supposto pio credente islamico si posa su talune conquiste delle civiltà non islamizzate: la maggiore capacità individuale di scelta e autorealizzazione, il culto per le libertà individuali e le opzioni di genere, la tolleranza verso ideologie e fedi, il pluralismo dei consumi e dei saperi? Accade lo scandalo della tentazione e della sua forza di seduzione. Meglio impedire che il processo, con i rischi insiti, si inneschi. Meglio incutere terrore a chi potrebbe finirvi impigliato. Non abolibili per decreto dove Daesh non domina, turismo e consumi possono essere cancellati ovunque dal terrore effettivo e/o percepito. L’antropologia del radicalismo islamico non prevede che l’uomo gioisca delle opportunità della conoscenza e della curiosità, ma dei precetti coranici. La sua cosmogonia, in quanto strumento, neppure sempre consapevole, dell’”utopia dello stato etico” islamico prevede il comportamento devoto e non accetterà mai, a qualunque latitudine, quello frivolo e gaudente del viaggiatore di piacere.
Se non si parte dalla consapevolezza di quanto pesi, nella lunga scia di assassinio jihadista arrivata, per ora, a Istanbul e Dacca, questa “utopia”, non capiamo molto né di Daesh né di quanto ci lancia sotto gli occhi quotidianamente, con la scala di impressionante capacità stragista che realizza. L’Islam, attenzione! non solo quello radicale e fondamentalista, si dichiara e si pretende interprete unico e assoluto di ciò che è etico e di ciò che non lo è. Di conseguenza, come per secoli hanno fatto anche le gerarchie cristiane, si arroga il diritto di castigare in nome di quell’etica chiunque, al suo interno (i fedeli) e fuori (gli infedeli) attui comportamenti ritenuti non etici. In questa visione, il peccato degrada l’essere umano, lo umilia e abbassa al rango di non umano, animale e simile. Il non umano può essere represso senza problemi di coscienza: lo si fruisti dunque, lo si escluda, lo si scanni come si fa con la bestia al mattatoio. Il tutto, manco a dirlo, “Nel nome del Dio potente e misericordioso”: più potente che misericordioso, verrebbe da osservare.
Giustamente Costa, nel libro, mostra quanto sia distante questa visione, dalla proposta edonista ed inclusiva, del bel vivere e del ben vivere che la cultura del turismo e del tempo libero all’occidentale propongono, grazie alle risorse concettuali, organizzative e tecnologiche di cui dispone. L’antitesi sta nell’immagine di nostri ragazzi dai corpi seminudi che amoreggiano scaldandosi al sole sulla spiaggia, e il passeggiare accanto del barbuto con donna al laccio reclusa nel suo cono d’ombra velato, a seconda dei riti socio-religiosi di appartenenza, da Al Amira, Burqa, Chador, Hijab, Khimar, Niqab o Shayla.
Sul piano eminentemente filosofico e teologico viene, a questo punto, un’osservazione. Possibile che questi maschi barbuti e assoluti, candidati ad autoesplodersi alla prima opportunità felici alla prospettiva di andarsi a godere le tante vergini sempre-ripetutamente-deflorabili che li attendono (ma che ne sarà delle ragazze autoesplodenti per le quali non è previsto nessun menu paradisiaco? osserva con arguzia Nicolò Costa) non possiedano un appiglio di resipiscenza, d’incertezza se non di pietà per se stessi prima ancora che per gli altri? Probabilmente li aiuta in questa scellerata devozione necrofila, l’adorazione, anch’essa assoluta, per il Dio unico, imposta dal loro profeta. Il polimorfo (proprio di un paganesimo che aveva divinità peccatrici e passionali come gli umani; ma anche del dio cristiano, teologicamente unico ma trinitario, e umano oltre che divino) non gli appartiene. L’unicità va percorsa, e chi ne dissentisse, vi verrebbe costretto, con le buone o le cattive.

Un’ulteriore considerazione fa capire, sotto il profilo “tecnico”, quanto sia difficile giocare ad armi pari con Daesh e in genere con il fondamentalismo islamico omicida. Le guerre si sono basate da sempre su un principio: il mio avversario non vuole morire, proprio come io non voglio morire. Posso garantirmi una certa tranquillità purché gli incuta la dose di timore sufficiente a dissuaderlo dall’attaccarmi, nella consapevolezza che sono capace quanto lui di far male. Su questa base gli stati hanno costruito la loro sicurezza nei secoli; su questa base abbiamo evitato il conflitto nucleare sovieto-americano negli anni di guerra fredda, con la formula del MAD, Mutual Assured Destruction. L’autoesplodente sfugge a questa logica, avendo il culto della propria e altrui morte, considerandosi una sorta di cadavere in missione che deve rientrare al più presto nei ranghi. La sua è la più grande danza macabra della storia, perché il protagonista sceglie di danzarla e invita quanti più umani ad esserne parte. Non è possibile il dialogo con chi ti diventa vicino solo per ucciderti. Chi vuole legittimamente spassarsela nel viaggio e nei luoghi dello svago non potrà trovare un solo punto di dialogo con chi gli imporrà la rinuncia anche a costo della vita.
E questo valga per chi continua ad affannarsi a prendersela con il cosiddetto occidente, in occasione dei ricorrenti attacchi che sta subendo dai jihadisti, scambiando (è successo molte volte nella storia, chiedere informazione agli ebrei) vittima e carnefice. Costa sul punto picchia giustamente duro. Daesh colpisce i luoghi del nostro piacere perché nega il piacere come noi lo intendiamo. Di conseguenza attribuisce peccaminosità a luoghi che noi consideriamo innocenti, ed elenca peccati che vi si compirebbero nei quali noi non ci riconosciamo.
Tutto, ovviamente, va anche riportato dentro la simbologia che Daesh e gli islamisti si affannano da anni a proporre, come strumento pedagogico dell’edificando (loro) “stato etico”. Dare una lezione ai peccatori esplodendosi e facendo esplodere i luoghi dell’edonismo globale e cosmopolita, significa fornire una “lezione” di cancellazione nell’immaginario, del desiderio di godere di certi luoghi e in certi luoghi. I luoghi del turismo e del tempo libero si caricano, per chi li gusta, di simboli, ricordi, consumi, affettività e alimentano nuovi desideri. Sono simboli pericolosi per l’islam barbuto. I simboli e i loro luoghi vanno fatti esplodere, come capita alle bolle di sapone in aria.
In quest’ambito di scontro, c’è una categoria, nel testo di Costa, che va precisata. Quelli che lui chiama gli ”infiltrati”, richiamando la presenza nelle nostre città e comunità di colonie di fondamentalismi sciita e sunnita, andrebbero più correttamente interpretati come contigui. Vivono sul pianerottolo di casa, sono a cena con noi al ristorante, sui banchi dell’università, magari fanno i receptionist nel resort turistico dove sei con i bambini, e ti sorridono prima di dedicarsi a come ammazzarti. L’infiltrato spetta ai meccanismi di sicurezza dello stato scoprirlo, il contiguo è cosa anche dei cittadini, sempre che amino vivere e conservare le conquista di secoli di lotte contro oscurantismo e oppressione religiosa.
Aiuta il concetto di “scala”. I membri delle nostre comunità hanno bisogno di maturare un atteggiamento più consapevole verso il rischio jihadista, per la semplice ragione che la quantità e qualità degli attacchi perpetrati lascia supporre ulteriore escalation. Questo nel segno di una indicazione a suo tempo fornita dal carismatico leader scita Ruollah Khomeini, nel discorso ufficiale del 1980 alla città santa di Qom: “Noi non veneriamo l’Iran, ma Allah … Per questo dico: che questa terra bruci. Che vada in fumo, purché l’Islam ne esca trionfante …”. Il radicalismo islamico con la sua utopia dello stato etico, ha innescato una scala che ha superato da tempo il livello della gestibilità con gli strumenti della “normalità”. Dobbiamo purtroppo capire che qualcuno ci ha dichiarato guerra nel momento in cui noi avevamo smesso di fargliela, e che la battaglia asimmetrica nella quale siamo tutti coinvolti va gestita su più piani, con intelligenza, perseveranza, durezza dove necessaria.
La citazione di Khomeini porta alla considerazione conclusiva. Lo stato etico islamico è la negazione dello stato come da noi inteso. Lì si scrive stato e si legge umma dei credenti, non stato dalla costituzione laica e garantista per tutti, qualunque sia il genere e la religione. Per quell’islam estremo, la carta d’identità che dona diritti è quella degli adepti, non quella dei cittadini. Il califfato ambito da Daesh è la cancellazione degli stati, la costruzione dell’universale comunità dei credenti unificati sotto la bandiera verde del profeta. E’ avvertito per tempo chi non gradisse la prospettiva.
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