I festeggiamenti del settantennale della Repubblica italiana hanno lasciato in ombra la questione centrale: cosa ne sarebbe stato del nostro paese se al referendum avesse vinto la monarchia. Domanda oziosa se posta come ipotesi non verificabile: chiunque potrebbe sbizzarrirsi a immaginare un paese migliore o peggiore dell’attuale. Domanda invece indispensabile se, tracciando il bilancio dei sette decenni repubblicani, si raffrontano Italia monarchica e Italia repubblicana, per un giudizio storico sui comportamenti dei due sistemi istituzionali che andarono al vaglio referendario il 2 giugno 1946.
Il punto chiave, nel gioco di specchi tra i due regimi che hanno riassunto l’Italia nei 155 anni di esperienza unitaria, sta nel rapporto che ciascuno dei due ha realizzato tra stato e popolo, visto che è dal popolo che i regimi politici derivano la legittimità ad esistere.
Il regime istituzionale dello stato unitario, vanta tre fasi. Nella prima la monarchia lo qualifica non attraverso costituzione passata al vaglio del popolo, ma con lo statuto calato dalla corona (octroyé, dicono i tecnici). Nella seconda lo stato viene dotato, dalla corona, di leggi e apparati repressivi e razziali, derivanti dalla consegna al fascismo delle istituzioni. Nella terza fase, il popolo sceglie di espellere dalle istituzioni la monarchia e sostituirla con la repubblica. Adotta successivamente, con voto universale, la costituzione.
Il popolo italiano, andato disperso e frammentato per quasi un millennio e mezzo, sotto poteri quasi sempre stranieri, viene ricomposto in unità dal regno d’Italia, quando il trinomio Mazzini Garibaldi Cavour realizza il miracolo diplomatico del 1861. Ma quale sarà il rapporto che viene a instaurarsi tra il nuovo stato e il suo popolo, o meglio le sue popolazioni, visto che queste vengono da esperienze separate, parlano lingue o dialetti diversi (ancora nel 1951 solo un terzo della popolazione ha abbandonato il dialetto come unico ed esclusivo strumento di comunicazione), hanno livelli di reddito e cultura diversissimi, abitudini alimentari e climi dissimili, tradizioni e comportamenti talvolta incompatibili? Nella successione dei fatti, il rapporto tra stato e popolo non apparirà dei più felici, assumendo in talune fasi contenuti di autentica ferocia, in particolare quando lo stato si fa occupante, classista, parziale, ingiusto, arrogante, colonialista.
Il nuovo stato, voluto dai padri della patria come edificatore di unità politica e integrazione sociale, costruttore e amministratore delle regole di convivenza, stimolo dello sviluppo economico, garante della sicurezza interna ed internazionale, risulterà in diverse fasi inadempiente e non emendabile. Si pensi a un Garibaldi che, nel dimettersi da deputato, il 27 settembre 1880, due anni prima della morte, scrive nella lettera agli elettori romani attraverso il giornale “La Capitale”: “Non posso più contare fra i legislatori in un Paese ove la libertà è calpestata, e la legge non serve nella sua applicazione …. Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa Italia, miserabile all’interno e umiliata all’estero”. Già nel 1868 il nizzardo si era dimesso, indignato per come il governo stesse trattando il Mezzogiorno. In quell’occasione aveva scritto ad Adelaide Cairoli che lo rimproverava: “non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano…”. Non si resti sorpresi. Il moderatissimo e piemontesissimo Cavour, inconsapevole della condizione personale (morirà il 6 giugno 1861), ma ben conscio di cosa i suoi stessero per scatenare, aveva detto dal suo letto: “Tutti son buoni di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà”.
La monarchia non solo reprime e affama il meridione, generando, tra l’altro, l’epopea dell’emigrazione oltremare dei cafoni. Pianifica guerre e attinge dove può, attraverso imposizioni e tasse, la più odiosa quella sul macinato. Trentasette anni dopo la frase di Cavour, l’Italia, affamata, è alla guerra del pane. A Milano, il comandante della piazza, generale Bava Beccaris cannoneggia i manifestanti inermi facendo 81 morti e 450 feriti. Invece di degradarlo e rinchiuderlo da criminale nelle patrie galere, il re gli manda il telegramma di congratulazioni e la medaglia al merito.
Con questi inizi, a bilancio, lo stato, anche quello repubblicano, da molta parte del popolo è ancora vissuto come estraneo, indecifrabile nelle sue logiche, isolato nella turris eburnea di autoreferenze e privilegi sfacciatamente esibiti, nelle endogamie che dalla politica trasmigrano al sociale e all’economico, Nel linguaggio libero di critica dei nostri tempi, nonostante la costituzione al suo primo articolo ci affidi ad una repubblica fondata “sul lavoro”, si è scritto che a governarla sia la casta, un vasto miscuglio di generone dirigenziale che costa al contribuente più di 23 miliardi l’anno. I suoi comportamenti familistici e clanici, la sua corruzione, hanno reso la Repubblica sempre più ingiusta e squilibrata: oggi il 10% della popolazione detiene più della metà della ricchezza nazionale. La progressiva disaffezione dal voto sta anche lì.
Eppure “il popolo”, idealizzato dal risorgimento, reso suddito da monarchia e fascismo, finalmente in pienezza di cittadinanza grazie alla costituzione repubblicana, è stato capace di solidarietà e convivialità (vedansi come ci comportiamo con i rifugiati e i livelli di volontariato civile), geniale nel tramutare in potenza industriale mondiale (secondo in Europa solo alla Germania) un paese tra i più arretrati in Europa. Ma è stato incapace di darsi un efficace e giusto mercato del lavoro, così come di esercitare i suoi doveri di controllore dei ceti dirigenti di stato e pubbliche amministrazioni.
E’ l’incapacità tipica di gente che ha scantonato dalla lezione mazziniana per la quale la fruizione dei diritti può darsi solo dopo aver ottemperato ai doveri. Noi cittadini, chi più chi meno, per pigrizia o vizio, ci siamo resi complici della corruzione e della illegalità che sgretolano dall’interno istituzioni e sistema economico. Ad esempio, non ci siamo opposti con durezza e giustizia agli scellerati favori che politici, management pubblico e privato, burocrati dei livelli centrali e periferici si sono attribuiti dirottando su fini particolari una troppo grande fetta della ricchezza che democrazia e fatica dei connazionali generano. I primi a non farlo, i più responsabili, sono stati le forze dell’ordine e le varie magistrature.
Se, come le citazioni di Cavour e Garibaldi insegnano, la monarchia iniziò da subito a tradire le ragioni dell’unità, sarebbe risultato esiziale quanto accadde nel secondo decennio dello scorso secolo. Lì si ebbe la dispersione dell’insegnamento di civismo e impegno sociale, di patriottismo e spinta all’equità tra territori e classi, consegnato ai posteri dal risorgimento, nelle sue venature liberali, cristiane e socialiste umanitarie. A tutela dell’interesse nazionale, i ceti dirigenti avrebbero dovuto conferire priorità alle politiche sociali, all’istruzione di massa, al riscatto del Mezzogiorno, invece di andare a far danni per il Mediterraneo con le spedizioni coloniali. Avrebbero edificato una nazione più forte e degna, arrestando l’emorragia dei milioni di emigranti che nei decenni avrebbero privato il paese di un immenso patrimonio di risorse morali e intellettuali.
Invece Crispi, succeduto a Depretis nel 1887, immagina la continuità territoriale dal mar Rosso all’Etiopia e trascina la nazione in aggressioni esterne che fanno il paio con l’autoritarismo interno. I successori proseguiranno, ad ogni occasione, a sperperare risorse per una grandezza militare impossibile, senza farsi mancare neppure la guerra civile di Spagna. Si renderanno protagonisti di crudeltà gratuite con i lager di Rodolfo Graziani in Libia (centomila detenuti), entreranno tronfi e impreparati nella Seconda guerra mondiale pensando di fare un boccone di nazioni sorelle come Francia e Grecia e si spingeranno sino alla folle campagna di Russia nonostante lo stesso Hitler lo sconsigliasse, interneranno tra il 1940 e il 1943 civili in sessanta luoghi di detenzione nazionali e non, facendo repressione etnica contro croati e sloveni. Nell’intermezzo della tragica stagione che liquiderà la monarchia macchiatasi anche dell’8 settembre e della fuga da Roma, si scriveranno così pagine dolorose come gli eccidi nazisti in Italia (Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine) e fuori (Cefalonia, le foibe carsiche, l’esodo giuliano-dalmata), mentre italiani di religione ebraica vengono gasati nei campi nazifascisti e persone come Leone Ginzburg, i Rosselli, Jaime Pintor, utilissime per la futura repubblica, vengono ammazzate.
Solo la riscossa repubblicana del dopoguerra avrebbe in parte recuperato i valori risorgimentali, anche attraverso il mito del secondo risorgimento (la resistenza armata al nazi-fascismo). Si mette il Mezzogiorno in testa alle priorità di sviluppo della nazione: a testimoniarlo la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno, l’impegno dell’Iri e delle partecipazioni statali. Si sceglie Nato e sovranazionalità europea (Mazzini fu Giovine Europa oltre che Giovine Italia…), come obiettivi dell’interesse nazionale nei rapporti internazionali, con il contestuale rifiuto della guerra d’aggressione. Tra il 1950 e il 1961 l’Italia sperimenta il boom economico: l’aumento medio annuo del pil è del 6,7%. A fronte dell’aumento dei salari del 46,9% si ha incremento di produttività dell’84%. L’Italia “copia” lo stile di fabbrica fordista degli Usa, scopre i giacimenti Agip in val Padana, vara il piano per l’acciaio di stato, ottiene l’Oscar della stabilità monetaria (1960). Il quadro politico è solido, avendo alla radice il modello di gestione sociale e di sviluppo economico einaudiano e degasperiano detto di “liberismo sociale”. Considerando l’intero periodo tra il dopoguerra e i primi ’70, il segno positivo del tasso di crescita scende di poco rispetto al solo decennio ‘50, ma è pur sempre del 5,4%. Cresce anche il pil pro-capite: tra il 1951 e il 1972 segna +4,6%. E’ la stagione delle grandi riforme che rendono moderno il paese, grazie all’incontro tra democristiani e socialisti, tra ispirazione della dottrina sociale della chiesa e il riformismo della scuola socialdemocratica renana condito con le tradizioni fabiane e turatiane.
Nel decennio ‘90, la crescita scende al valore medio annuo dell’1,3%, rispetto al 2,2 dell’intera area euro e al 3% degli Stati Uniti. Declinano anche gli investimenti, con aumenti medi dello 0,8%, l’1,5% in meno della media europea. Il tasso di partecipazione della forza lavoro si ferma al 58,5%, 20 punti meno degli Usa, 8 punti meno dell’area euro. In detto scenario, le due fratture italiane, territoriale e sociale, tendono ad accentuarsi ulteriormente, in particolare nel Mezzogiorno. Nella crisi scatenatasi dal 2008, il sud perde centinaia di migliaia di posti di lavoro, riaprendo la piaga dell’emigrazione. Dopo gli anni di piombo del terrorismo, è il periodo più duro della vita repubblicana, con il generalizzato crollo dei valori morali e sociali, oltre che economici. La piccola ripresa economica e sociale registrata dalla metà di questo decennio, se non risolve, fa almeno sperare, pur nella consapevolezza di quanti squilibri, sociali e territoriali, siano nel frattempo venuti a consolidarsi. Basti dire che il salario medio annuo, calcolato in dollari, dopo il salasso di tasse e contributi, è il peggiore in Europa, per il lavoratore italiano senza famiglia, salvo Portogallo e Grecia, e ovviamente i paesi ex comunisti. La Repubblica ha inoltra al collo il cappio del tuttora crescente debito sovrano.
La repubblica ha dato all’Italia una democrazia rispettata anche se non sempre rispettabile nei suoi comportamenti, insieme a un tessuto economico che, nonostante la lunga crisi, tiene. Ha dato anche maggiore studio, la piena parità formale alle donne, maggiore cultura, nuovi diritti personali e sociali, l’evoluzione del diritto di famiglia. Ha dato pace e diritti, dove la monarchia dava guerre di aggressioni e diritti solo per taluni. Al tempo stesso appaiono evidenti il declino del senso di responsabilità anche nei ceti dirigenti, la corruzione ramificata, la mancanza di lavoro, lo scoramento dei ragazzi rispetto al loro futuro. Abbiamo, inoltre, al collo il cappio del debito pubblico che continua a stringersi invece di allentarsi. Si celebrino giustamente i settant’anni di una Repubblica che ha dato al paese benessere e libertà mai prima goduti. Ma non si dimentichi che siamo nel mezzo di squilibri non ancora sanati, ai quali occorre non dare tregua.
Non casualmente quando il fascismo si costituì in regime, varò due grandi riforme, quella Gentile per l’istruzione (1923) e quella Rocco per la giustizia penale (1930): il regime democratico partorito dalla Costituzione del 1948 ha proceduto per rattoppi a modificare dove indispensabile le norme di quei sistemi. Dovrebbe invece, in quei settori fondamentali, andare ad impianti alternativi, aggiungendo la riforma completa e definitiva della dirigenza pubblica, del sistema giudiziario, delle autonomie. Non farlo condanna la Repubblica al piombo nelle ali.