Manhattan era sempre stata l’ossessione di Donald Trump. Sin da giovane ne osservava i grattacieli dalla sua casa a Queens ripetendosi che era proprio laggiù che voleva arrivare. Per anni poi aveva tentato in tutti i modi di convincere il suo vecchio ad investire lì ma lui non ne voleva sapere. Troppo rischioso diceva e poi l’importante era solo costruire. Lo aveva fatto altrove, in fin dei conti, e anche con un discreto successo.
Non a caso, quando nella primavera del 1971 il padre consegnò a Donald il controllo della Trump Organization, questa possedeva più di 14.000 appartamenti disseminati tra Brooklyn, Queens e Staten Island, per un valore complessivo di circa 300 milioni di dollari. Eppure il giovane imprenditore, che come sappiamo per spregiudicatezza non è secondo a nessuno, decise che era finalmente giunto il momento di compiere quell’azzardo e realizzare il suo sogno.
Era così certo del successo che non prese nemmeno in considerazione la possibilità di non farcela anche perché aveva capito che sì costruendo a Coney Island o in un qualsiasi altro posto si facevano soldi, ma solo a Manhattan avrebbe potuto costruire il mito di sé stesso. E di fronte ad una simile prospettiva nessuno lo avrebbe fermato.
A dire il vero si trattava eccome di un rischio ed un qualsiasi imprenditore minimamente avveduto avrebbe, con ogni probabilità, evitato di prenderselo ma una delle più strabilianti doti di quel giovanotto era la capacità di trasformare in occasioni le situazioni apparentemente avverse, e questo ne fu un perfetto esempio.
New York a metà degli anni Settanta era infatti una città sull’orlo del baratro e ad un passo dalla bancarotta; Midtown, come tante altre zone, viveva un degrado che appariva ormai irreversibile al punto che molti abitanti erano letteralmente in fuga alla ricerca di luoghi meno ostili. Insomma costruire proprio lì un nuovo, lussuosissimo, albergo non sembrava certo una grande idea. Ma la città non aveva ancora fatto i conti con Donald John Trump.

Il Commodore era stato un tempo uno dei più importanti hotel di New York. Sorgeva a fianco di Grand Central e non a caso il nome era un omaggio proprio a quel Cornelius Vanderbilt, ricchissimo magnate che finanziò la stazione, conosciuto da tutti con il soprannome di “the Commodore”. Nonostante ciò nel 1977 il fallimento della Central Railroad, la società ferroviaria di cui anche l’albergo faceva parte, ne comportò la chiusura.
Fu allora che Trump capì che quella era proprio il genere d’occasione che stava aspettando. Rilevò l’hotel e si mise a fare ciò che gli riusciva meglio. Con il suo carisma ma soprattutto con la sua rete di conoscenze, ereditate dal padre, riuscì a spuntare tutta una serie di accordi vantaggiosissimi che resero l’operazione un facile successo. Coinvolse nel progetto prima la prestigiosa catena di hotel di lusso Hyatt, quindi ottenne un prestito dalle banche di ben 80 milioni di dollari ma soprattutto beneficiò, attraverso un suo vecchio amico, il sindaco Abraham Beame (uno dei più discussi che New York abbia mai avuto) di una riduzione fiscale per i successivi quarant’anni che gli avrebbe consentito di risparmiare qualcosa come 120 milioni di dollari. Era una situazione senza precedenti che consentì a Trump di trasformare un probabile fallimento in un successo scintillante.
Il Grand Hyatt Hotel aprì le sue porte nel 1980. L’edificio originale di inizio secolo era sparito, ricoperto da una facciata di vetro ed acciaio, solo la struttura portante sopravvisse; del resto il nuovo proprietario era stato chiaro, al diavolo la storia, l’importante era trasmettere un’idea di lusso e modernità.
Si stava aprendo una nuova epoca fatta di eccessi e lusso in cui l’apparire sarebbe diventato fondamentale. Un decennio “hollywoodiano” durante il quale alla Casa Bianca sedava un ex attore mentre i media confezionavano l’immagine patinata dell’American dream,
Trump intuì prima di tutti il cambiamento e abilmente lo cavalcò, anzi lo indirizzò, almeno per quanto riguarda l’edilizia: inaugurò una stagione d’oro, non solo metaforicamente, in cui l’architettura sarebbe diventata una sorta di scenografia della celebrazione capitalistica.
Proprio il giorno in cui si inaugurava il nuovo Gran Hyatt Hotel, Mr. Trump era già a lavoro per il passo successivo, quello che lo avrebbe consacrato come indiscusso protagonista della scena newyorchese. Aveva messo da qualche tempo gli occhi su un altro edificio di inizio secolo, il Bonwit Teller Building. Si trattava di una raffinata architettura risalente agli anni Venti, in stile vagamente Art Decò, con una facciata impreziosita da eleganti bassorilievi.
A Trump però dell’edificio in sé non interessava nulla, ciò che voleva era acquisire quella porzione di Manhattan. Non un luogo qualsiasi in effetti; Il Bonwit Teller sorgeva infatti sulla Fifth Avenue all’incrocio con 56th Street, esattamente di fianco a Tiffany.
Ci volle appena un mese e qualche, convincente, milione di dollari ad acquistare il palazzo e, soprattutto, i relativi air rights, la possibilità cioè di incrementare l’altezza dell’edificio. Il piano era semplice, demolire tutto e costruire al suo posto un grattacielo.

L’incarico fu affidato all’architetto Der Scutt che firmò la nuova Trump Tower. Oltre duecento metri di altezza per 58 piani (nonostante lo stesso Donald continui ad affermare che siano dieci in più), con una pelle fatta di scure vetrate ed una sorta di giardino pensile ad oltre cinquanta metri d’altezza. Ogni dettaglio avrebbe celebrato il costruttore a partire dalla grande scritta d’oro sopra l’ingresso lungo Fifth Avenue, alle spalle della quale si apre un’immensa hall alta ben sei piani con le pareti rivestite di costoso marmo rosa e addirittura una cascata. Eccentrica ostentazione e cattivo gusto secondo i più, semplicemente warm modern secondo il suo proprietario.
Gli eccessi di questo progetto del resto rispecchiavano non solo il suo ideatore ma anche quell’epoca. Quasi un manifesto programmatico per gli anni a venire che non tardò a far storcere il naso a molti intellettuali; in pochi persero l’occasione per attaccare il nuovo grattacielo. Micheal Sorkin, dalle colonne del Village Voice, ad esempio, non usò giri di parole definendolo “sbagliato in ogni aspetto” prendendosela poi con “l’impressionante insensibilità dei suoi architetti”.
Tra le proteste che si levarono molte erano di indignazione per la distruzione di un’importante edificio del passato. Il clima di ostilità fu tale che lo stesso Trump si vide costretto a scendere a compromessi acconsentendo almeno a salvare i bassorilievi sulla facciata del Bonwit Building, donandoli al Metropolitan Museum. Almeno questo fu ciò che dichiarò, salvo poi rimangiarsi tutto non appena informato che la rimozione sarebbe costata “ben” 32.000 dollari. Fu così che il bassorilievo bronzeo andò misteriosamente perduto pochi giorni dopo e il resto dell’edificio venne distrutto nel giro di un mese.
Il grattacielo venne inaugurato nel 1983 divenendo immediatamente uno dei simboli della città, realizzando così il sogno di Trump, divenuto lui stesso una star, un’icona newyochese. Attori e personaggi famosi fecero, da subito, a gara per accaparrarsi uno dei costosissimi appartamenti. ttra coloro che ci riuscirono, Steven Spielberg, Andrew Lloyd-Webber, Bruce Willis e più recentemente Cristiano Ronaldo e l’ex dittatore haitiano “Baby Doc” Duvalier.
L’ascesa del miliardario sembrava inarrestabile. Il passo successivo non si fece attendere e così nel 1988 arrivò un’operazione, sotto certi aspetti, ancor più eclatante. Per poco più di 400 milioni di dollari Trump acquisì il Plaza Hotel, il tempio del lusso cittadino, uno degli alberghi più prestigiosi del pianeta.
Finalmente il suo sogno poteva definirsi coronato, in appena dieci anni si era ritagliato quella fama e quella popolarità che suo padre non raggiunse mai.
Stavolta non ci furono demolizioni: quell’hotel è uno degli edifici più importanti della città e Trump ebbe il merito di restituirgli uno smalto che a metà degli anni Ottanta sembrava ormai smarrito.

Negli anni successivi la gold rush sembrava non doversi mai arrestare e Trump era ormai l’assoluto mattatore del mercato immobiliare così come delle cronache mondane. Un vulcano di idee sempre più ambiziose e megalomani, nonostante avesse iniziato a costruire casinò ad Atlantic City, grattacieli in giro per il resto del paese, ad acquisire compagnie aere e quant’altro, era sempre Manhattan ad essere al centro dei suoi piani. Tra tutti il più incredibile fu senza dubbio quello per la cosiddetta Television City. Si sarebbe trattato di un immenso progetto edilizio lungo le rive del Hudson, su un’aerea di ben 23 ettari compresa tra la 72nd e 59th Street, il tutto per un valore stimato (per difetto) attorno ai 3 miliardi di dollari. Un complesso enorme che avrebbe compreso quasi 6.000 appartamenti, uffici e persino il nuovo quartier generale della NBC. Si sarebbe trattato di gran lunga del più vasto progetto immobiliare che Manhattan avesse mai conosciuto.
Fu proprio a questo punto però che il giocattolo si ruppe. Un’inattesa quanto dolorosa crisi economica risvegliò bruscamente tutti e proprio in quello stesso periodo Trump dovette affrontare il costosissimo divorzio dalla moglie Ivana. Insomma quello che era il suo impero si sgretolò tanto rapidamente quanto era stato costruito, costringendolo a vendere moltissime proprietà pur di evitare l’umiliazione della bancarotta.
Rapida ascesa e ancor più rovinosa caduta, è vero, ma come le recenti cronache ci raccontano, anche una inattesa risalita seguendo la più classica trama dell’epica hollywoodiana come lui stesso non perde occasione di sottolineare. Una storia sullo sfondo di anni in cui l’America si rispecchiava in Trump più di quanto lui non lo facesse con quel paese che oggi vorrebbe governare. Un personaggio ingombrante, per molti impresentabile, che però è, in fin dei conti, il fondamentalista della nostra cultura, quella occidentale; una sorta di fedayyin capitalista che bisognerebbe conoscere prima di cercare di abbatterlo con la macchina del ridicolo. La sua storia è in parte quella di una città e, più in generale, della nostra parte di mondo.