L’argentino Jorge Maria Bergoglio si sta occupando d’Europa più di quanto abbiano fatto i predecessori italiani ed europei. Il recente conferimento del premio internazionale Carlo Magno è stata occasione per confermare quanto l’andamento del vecchio continente sia tra le priorità di Francesco. Rispetto a questa vocazione, vengono spontanee alcune domande. Perché il Santo Padre ha così a cuore l’Europa? Cosa intende quando pronuncia il nome Europa, ovvero di quale Europa parla? A chi si rivolge con i suoi appelli e per raggiungere quale obiettivo? Non si dimentichi che il papa, come capo della Santa Sede, dispone di una sua diplomazia presente nelle capitali chiave e nelle maggiori istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, e accredita presso il Soglio pontificio fior fiore di diplomatici stranieri. Da qui l’ultima domanda: non basta la diplomazia vaticana? Perché Francesco deve intervenire in prima persona?
Può tornare utile richiamare le motivazioni che hanno portato all’attribuzione del Carlo Magno, ovvero l’impegno di Bergoglio “a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori”. Misericordia a parte, non sono molto diverse da quelle che hanno convinto la giuria di Oslo ad attribuire il premio Nobel per la pace 2012 all’Unione Europea, come “promotore di pace, riconciliazione, democrazia, diritti umani”. Ci sono tre differenze rilevanti nei due premi e giocano tutti a favore dell’Ue. Il Nobel per la pace è il premio massimo al quale gli operatori di pace e dialogo possano ambire. L’Unione viene premiata, in quanto istituzione che ha agli atti sessant’anni di coerente politica di pace e cooperazione internazionale, non per l’azione di breve periodo di una persona, sia pure il capo della cattolicità. Tuttavia il papa, davanti ai leader raccolti in Vaticano per rendergli omaggio nel giorno della consegna del Carlo Magno, sente il bisogno di richiamare l’Europa ai suoi doveri. Lo fa perché allarmato da alcuni fenomeni contingenti, come taluni rifiuti opposti agli immigrati e ai rifugiati? O il suo è ragionamento che arriva da lontano e che matura, profeticamente, nel timore che sull’Europa si vadano addensando le pesanti antiche nubi dei conflitti intestini forieri persino di guerra?
“Sogno un nuovo umanesimo europeo” ha detto Bergoglio a Matteo Renzi e Angela Merkel, e agli esponenti delle istituzioni presenti in Vaticano, auspicando “uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato continente”. E’ il segnale che, dall’osservatorio della Santa Sede e della sua diplomazia, di fronte alle macerie e alle tensioni che continuano a salire in ogni continente, si percepisce il rischio che la lunga pacificazione europea, commerciale ed economica oltre che politica, possa cedere alle ricorrenti tensioni interne, facendo mancare al cammino universale verso quello che in gergo cristiano viene chiamato “il bene comune”, il protagonista statuale più positivo dell’ultimo mezzo secolo, sorta di istintivo naturale alleato della Santa Sede nella politica internazionale.
La chiesa ha da tempo indicato dove ritiene siano i punti nevralgici della crisi europea, facendoli coincidere con quella che ritiene l’errata applicazione del principio di indifferenza dello stato di fronte alle religioni. Wojtyla regnante, nella stagione del rilancio istituzionale europeo, Roma si batté, contro il muro delle laicità, chiedendo con forza che nella bozza di costituzione europea, poi abortita, fosse inserito il richiamo alle “radici cristiane” del continente. Con Bergoglio, di fronte alle tragedie umane provocate dalla lunga crisi economica e dall’ammassarsi di migranti e rifugiati alle frontiere, prevalgono le ragioni del sociale e della misericordia. Ma non solo in chiave umanitaria e caritatevole. Il ragionamento papale va ben oltre, e diventa politico perché, con un occhio alle vicende che un secolo fa intercorsero tra la prima e la seconda guerra mondiale, monta la consapevolezza che dalle crisi sociali possa nascere il malcontento che genera le divisioni forti, i conflitti tra le classi e tra le nazioni. Il Vaticano con evidenza teme il ritorno degli egoismi personali e nazionali, con le sicure conseguenze catastrofiche che avrebbero.
Si guardi a come il primo ministro britannico, il conservatore David Cameron, ha agitato, nei giorni scorsi, lo spettro che Brexit riconduca le isole britanniche a guerreggiare con i vicini continentali. Si ricordino le parole al Parlamento Europeo, nel gennaio 1995, dell’allora presidente francese, il patriarca socialista François Mitterrand, sul rischio che il nazionalismo potesse riportare gli europei a massacrarsi tra di loro (“le nationalisme, c’est la guerre ! La guerre ce n’est pas seulement le passé, cela peut être notre avenir“). Si ha la cifra esatta della preoccupazione che assale la Sede apostolica in questa stagione. E difatti il papa, agli interlocutori del Carlo Magno, ragionando sulla “famiglia di popoli” che è l’Europa, fa osservare che “in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune … noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari.”.
E per questo il papa guarda all’umanesimo europeo, alla sedimentazione millenaria della sua cultura, alla sua progressiva e convinta adesione alla difesa sempre e ovunque dei diritti dell’uomo e si chiede, accoratamente, perché quella consapevolezza sembri dispersa nell’urto con la globalizzazione e la contemporaneità.
“Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”. Visitando il Parlamento Europeo, Francesco aveva parlato di un’Europa “nonna”, significando come la sterilità biologica del continente, con l’invecchiamento della popolazione fosse segno dell’infiacchimento dello spirito, del calare delle forze necessarie ad affrontare le sfide dei tempi, della sfiducia nel proprio futuro. Non dà risposte Francesco, scegliendo di stimolare gli interlocutori a ricercarle nell’azione di governo e nel dialogo con gli elettori. Ed è un peccato perché in molti da tempo s’interrogano su quale sia il disegno di Roma sul vecchio continente. Ci si era abituati alle evidenze della diplomazia di un Casaroli e di un Cordero Lanza di Montezemolo, maestri di dialogo e apertura verso i paesi del socialismo realizzato, saldatori di fratture storiche come quelle con gli Stati Uniti e Israele. Quelle azioni giovavano alla chiesa, e al tempo stesso aiutavano i processi di pace e giustizia. Occorre quello stile per l’Europa di oggi. E serve probabilmente la prudenza più che rampogna, il fioretto più che la sciabola, tante sono le sensibilità e i veti incrociati che vanno smussati.
La storia può aiutare. Il papa polacco, che aveva gioito con Kohl alla porta di Brandeburgo finalmente riaperta, favorì l’ingresso accelerato delle nuove democrazie dell’Europa centro-orientale nelle istituzioni di Bruxelles: posizione condivisa con Washington. Sappiamo tutti quanto quell’ingresso affrettato stia condizionando l’Unione Europea, ponendo tra l’altro questioni impensabili, come la svolta autoritaria dei governi attualmente al potere in Ungheria e Polonia. Il detto popolare su come la noce bacata o la mela marcia rovinino l’intero cesto, purtroppo, vale anche in politica.
Così come vale in economia. Francesco richiama l’Europa alle sue radici, e giustamente mette tra queste il modello di economia “sociale di mercato” scelto dalle Comunità europee nel dopoguerra, sull’onda delle modalità con cui veniva fatta la ricostruzione tedesca, tanto che si parlò di modello renano. Quel modello, che con orgoglio gli europei contrapponevano alle nequizie del “selvaggio” capitalismo statunitense, trovava linfa nella contiguità di valori e contenuti della dottrina sociale della chiesa con le elaborazioni dottrinali delle socialdemocrazie europee. Contiguità che spesso, come fu il caso in Italia con l’esperienza riformista di centro-sinistra, veniva travasata in formule di governo e riforme orientate al sociale.
Francesco rileva come l’Europa si sia distaccata da quel modello, accettando “un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse “ invece di tenersi ancorata “ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione”. Non ci spiega perché questo sia accaduto, attraverso quali varchi siano entrati nelle scelte di politica economica di governi dei paesi membri dell’Ue, per quindi prevalere nelle istituzioni unionali, i canoni economici di liberismo estremo che nell’Europa degli anni ’90 non avevano cittadinanza.
Il prossimo anno si celebrerà il mezzo millennio della riforma. Sarà una data utile per richiamare alla memoria cosa fosse l’Europa nei secoli delle guerre di religione, o meglio delle guerre che reami e principati scatenavano per accaparrare territori e ricchezze altrui, scaldando i cuori delle vittime predestinate al calore delle rispettive credenze religiose.
A dire il vero anche dopo la grande pacificazione di Westfalia (1648) con lo stabilimento delle garanzie per ogni libertà di fede, le guerre sarebbero continuate in Europa per altri trecento anni. Né sarebbero del tutto scomparse dopo. Sarebbe proseguita per decenni l’occupazione militare sovietica nell’Europa centro-orientale. Ci sarebbero state le guerre della dissoluzione post-jugoslava e post-sovietica queste tuttora in corso. Nella parte asiatica della Turchia non sarebbe mai cessata la caccia ai nazionalisti curdi. Cipro, peraltro, da più di quarant’anni è divisa in due.
Nel vecchio continente risultano pienamente pacificati solo i territori sotto bandiera Ue, quelli, nelle parole di Francesco, che “non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta”.