I cubani entrano in Italia ballando o sposandosi. Pur di fuggire dal regime dei Castro, si sposano con italiani, spagnoli, canadesi e messicani o si fanno ingaggiare dalle varie scuole di salsa per poi restare clandestinamente nel paese d’accoglienza. E a pagare le spese di viaggio, passaporto, vitto e alloggio sono sempre gli stranieri, che dopo una vacanza a Cuba, rimangono estasiati dal temperamento di questo popolo che promette di tropicalizzare la vita degli incauti finanziatori-mariti. Sì perché il vero obiettivo dei cubani è solo uno: fuggire dalla vita miserabile a cui li obbligano i Castro, con stipendi che vanno dai 10 ai 15 dollari al mese quando la carne ne costa 12 al chilo. Una vita dove tutto ciò che si fa per sopravvivere è praticamente illegale, dove lo Stato decide cosa studiare e che lavoro fare, e dove quasi nessuno lavora. Dove il socialismo castrista distribuisce anche i beni di consumo che sono praticamente nulli. Con la tessera, infatti, non si può vivere: il cibo non basta, il latte è solo per i bambini fino ai 6 anni e scarpe e vestiti sono distribuiti solo sulla carta.
Così i cubani hanno inventato il jineterismo, parola che deriva da “jinete”, che significa “cavallerizzo”, e quindi “colui che cavalca il turista, lo straniero”. Le prostitute non si chiamano con il loro nome, ma sono jineteras e la vera attività dei giovani (il 60% degli 11 milioni di cubani ha meno di 50 anni ed è cresciuta con il regime) è quella di andare a caccia di stranieri per farsi pagare viaggi e discoteca. E magari farsi sposare.
E se a Cuba tutto è iperbolico, l’amore cubano è il più forte del mondo, unico, irripetibile ed eterno. In molti sembrano crederci. Almeno nelle promesse, che raccontano di un sesso molto disinibito da parte delle donne, ma più noioso nei maschi che restano molto maschilisti e legati a un modello di coppia anni 50 e a una ricerca della felicità fatta di donne che sembrano meno esigenti e più affettuose. La donna cubana non è emancipata economicamente e quindi come in tutto il mondo, l’unico riscatto sociale per lei è il matrimonio. Meglio se con un buon partito. E l’italiano, romantico e spesso di sinistra lo è, sempre se paragonato al reddito di una famiglia cubana. Basti vedere la facilità con cui si celebrano i matrimoni all’ambasciata italiana dell’Avana e al Centro matrimoniale di ogni città, dove però bisogna pagare oltre 1.500 dollari per registrare la cerimonia.
In Italia costa meno, anche se poi la registrazione a Cuba costa oltre 1.000 dollari. Ma in questo caso per la reciprocità dei tribunali si potrà divorziare, senza neanche doverlo comunicare alla controparte, per rebeldia, una sorta di ripudio che una volta registrato in Italia renderà tutti liberi, soprattutto dal pagamento degli alimenti. Nel Belpaese, soltanto nel Centro-Sud si celebrano circa 50 matrimoni al mese tra italiani e cubane, di cui almeno 3 sono tra italiane che si innamorano di ragazzini che poi sposano. È il riscatto delle temba, come i cubani chiamano le donne attempate (e come una canzone, a ritmo di salsa, spiega: “Buscate una temba que te mantenga, que te mantenga…”). Ed è amore, almeno nelle prime fasi, almeno secondo quanto hanno dichiarato gli intervistati. Matrimoni che però all’85% dopo tre anni finiscono in un divorzio. Poiché l’Italia non rilascia più visti turistici ai cubani, il matrimonio è diventato l’unico strumento per ottenere quel ricongiungimento familiare che consente ai cubani di venire in Italia, restarci e magari beccarsi gli alimenti dell’ex marito, che quasi sempre ha il doppio dell’età della moglie tropicale.
Concerti e scuole di salsa, poi, con contratti di lavoro part-time fanno il resto per coloro che non riescono a trovare marito o moglie italiani. Ma perché gli italiani sono così propensi a sposarsi oltre oceano? Per colonialismo sessuale, per superficialità per convinzione che una moglie caraibica abituata alle ristrettezze economiche sia meno esigente e più paziente di un’italiana emancipata.
Che Cuba abbia convinto mezzo mondo di essere speciale è un fatto, anche nella politica migratoria di ogni continente. Ignorando che 11 milioni di mulatti, bianchi, e neri vivono sotto il regime dei fratelli Castro (senza ribellarsi gran ché), i cubani hanno convinto tutti di essere speciali, colti e sani. I film di false inchieste alla Moore su una sanità che nella realtà non dispone neanche di lenzuola negli ospedali, la propaganda dei Castro su salute e istruzione, la complicità dei mass media, ha fatto sì che questo popolo, certamente allegro e tropicale, fosse accettato e aiutato in ogni angolo del pianeta.
Negli USA, l’unico popolo che ha una legge che consente di ottenere la carta verde solo chiedendola è quello cubano. La legge del “piede secco e piede bagnato”, infatti, riconosce l’asilo politico immediato a quei cubani che toccano suolo americano. Proprio per timore che le nuove relazioni tra USA e Cuba cambino la “Ley de ajuste cubanos”, si è scatenata di recente un’ondata migratoria di medici e infermieri che dal Sud America sperano di arrivare negli Stati Uniti e utilizzare l’immediato riconoscimento del titolo di studio per poter lavorare a salari decenti. Ma sono stati bloccati in Nicaragua. Sono gli oltre 2.000 medici, infermieri e fisioterapisti che sono andati in Venezuela e in Brasile nell’ambito del piano di Raul Castro: soldi e petrolio in cambio di medici disposti a lavorare nella selva e nelle zone disagiate. Un introito di oltre 6.000 milioni di dollari per il regime che è agli sgoccioli e un salario più alto dei 15 dollari mensili (quanto guadagna un medico a Cuba), per “i camici in trasferta”. Medici che Ortega ha bloccato ai confini con il Nicaragua aprendo un contenzioso internazionale. Il Costa Rica ha dato loro un visto provvisorio di transito e ha dichiarato che non ne concederà di più. Una crisi migratoria che il Sud America sta cercando di risolvere anche con gli USA.

Mariela Castro e il marito italiano Paolo Titolo
In Italia invece ci si sposa per avere ricongiungimento familiare, residenza e cittadinanza all’ombra del Rinascimento. Il fenomeno dei matrimoni misti tra italiani e cubane è così diffuso che è stato oggetto di studio dell’Università di Chieti da me condotto. In Abruzzo, infatti, si registra il maggior numero di matrimoni e viaggiatori verso l’isola caraibica, che vanta anche un’associazione di abruzzesi in pensione a Santiago de Cuba. Seguendo i dati delle prefetture dell’Abruzzo, è risultato che nel 2011, nella sola regione del Centro Italia, ci sono stati 170 matrimoni tra italiani e cubane e 5 matrimoni tra italiane e cubani. Il 60% delle coppie il cui maschio era italiano aveva uno scarto di età compreso tra un minimo 15 anni e un massimo di 42; in quelle con donne italiane, il marito aveva minimo 10 anni di meno ed era mulatto e salsero (come dire, scelgo il marito o la moglie italiana, ma solo se è maggiore di età). Il 70% delle coppie ha avuto figli; tra le donne italiane solo due sono diventate madri perché di età inferiore ai 40 anni, le altre sono risultate fuori tempo massimo per una maternità multientica. I matrimoni misti, inoltre, solo nel 3% dei casi riguardano cubane bianche, per il resto i nostri connazionali preferiscono le donne di colore. Ma più interessanti risultano i dati delle separazioni e dei divorzi: il 96% delle coppie oggi è divorziato o separato. Al terzo anno infatti il picco dei divorzi si alza precipitosamente fino a diventare una certezza: differenze culturali, isolamento sociale dovuto alla lingua o alle abitudini, clima e pregiudizi fanno sì che le cubane in Italia vivano una vita difficile, di troppa responsabilità.
“A Cuba eravamo tutti poveri uguali – dice Yaneya Hernandez, che ha sposato un idraulico di Chieti – qui no e poi la gente è fredda e si lavora tutto il giorno”. Dopo il primo entusiasmo per shopping, tv (a Cuba ci sono solo due canali controllati) e cibo, la vita sociale è molto difficile per una ragazza abituata a vivere in piazze di piccole città. In Italia tutti lavorano e non hanno tempo da perdere se non nei fine settimana. Inoltre il fidanzato, che sembrava ricco e allegro su una spiaggia, in città lavora tutto il giorno. E per una giovane abituata a passare le giornate dal parrucchiere, o a ballare, è assolutamente noioso vivere le stagioni e i ritmi di una città moderna e una vita matrimoniale. Allora ecco che il cubano/a preferisce divorziare e volare a Miami, magari con un passaporto italiano per poi far valere la “Ley de ajuste” e avere così la carta verde.
Un dato significativo che dimostra che il matrimonio altro non è, per la maggioranza, che un modo per uscire comodamente dal paese senza dover affrontare gli squali dello stretto della Florida, su una balsa. I matrimoni misti non funzionano neanche quando è la moglie a essere italiana, durano di più, ma finiscono inevitabilmente in divorzio. Il maschio cubano non resiste all’emancipazione della donna, che spesso è l’unica a portare i soldi a casa. E per la legge italiana non è raro che debba essere lei a pagare gli alimenti al giovane ex marito. Ma non sempre è così, spesso è vero amore, come i tre matrimoni, tutti con mariti stranieri, della figlia del dittatore Mariela Castro, (l’ultimo è italiano Paolo Titolo).
“Mi ha sposato nonostante fosse gay – ci racconta S. P., giornalista di Repubblica – lui 27 anni, io 40. Arrivati in Italia, la sorpresa. Oggi gli ho dovuto dare la mia casa e gli passo gli alimenti, mentre lui se la spassa con il suo fidanzato che era d’accordo”. Ma gli esempi di questo tipo si moltiplicano. In Abruzzo ogni cubano che incontrate ha alle spalle storie di questo tipo e un cuore infranto. Giornalisti, politici, imprenditori e impiegati, ma anche idraulici e operai. Nessuno è immune dal fascino caraibico dei figli e le figlie di Fidel Castro. I ballerini invece si limitano a far scadere il contratto di lavoro con questa o quella palestra per poi, cercarsi una moglie italiana per il permesso di soggiorno, oppure semplicemente vivere alla giornata clandestinamente. Sono contesi dal pubblico che adora la salsa e che adora di più impararla da un cubano. L’Italia non riconosce loro lo status di rifugiati ed è meno severa degli USA con i clandestini, che possono ritornare a Cuba tranquillamente entro 9 mesi. Basta che paghino una tassa di soggiorno estera alla loro ambasciata. Trascorso questo periodo devono far rientro in patria o volare a Miami, e nessuno li fermerà all’aeroporto. Ma l’Italia ha ben altri problemi d’immigrazione per occuparsi di poche jineteras che, è vero che lavorano saltuariamente, ma raramente danno problemi di ordine pubblico. Inoltre gli aerei con destinazione L’Avana hanno ormai figli multicolori che tornano dalle nonne e viceversa. Un figlio, infatti, è la garanzia degli alimenti a vita, motivo per cui il 70% delle coppie di solito dopo un anno di matrimonio ne ha uno.
*Marcella Smocovich, ispanista, viaggiatrice e appassionata lettrice. Ha lavorato 15 anni con lo scrittore Leonardo Sciascia con cui ha imparato a leggere; 35 anni al Messaggero come giornalista professionista. Ha collaborato a El Pais, El Mundo di Spagna, alla CBS di New York. È stata vice direttore del mensile Cina in Italia. Viaggia frequentemente a Cuba, su cui ha scritto due libri, un’opera teatrale e moltissimi articoli. Vive tra Tunisi, New York, Roma e La Habana. È laureata a Salamanca e a Chieti.