Uno dei primi articoli da me scritti per questa rubrica aveva come argomento il fatto che uno degli aspetti caratteristici della cultura statunitense è la sua propensione per gli estremi. In molti aspetti della vita sociale, gli americani non conoscono la via di mezzo ma saltano da un eccesso all'altro in un curioso processo di cambiamento e di iper-compensazione.
Questo fenomeno crea situazioni paradossali come quelle descritte nei giorni scorsi dai giornali nazionali che hanno raccontato, spesso nelle stesse pagine, due episodi molto diversi tra loro ma esemplari di questa "schizofrenia latente" che caratterizza la cultura di questo paese.
Il primo, che ha fatto più scalpore sia negli USA che nel resto del mondo, è quello dell'orribile strage di afro-americani perpetrata in una chiesa della Carolina del Sud da Dylann Roof, l'ultimo giovanissimo rappresentante di quella miscela culturale, anch'essa tipicamente americana, fatta di odio razziale, ignoranza e brutalità. Ciò che rende "tipicamente americano" il massacro di Charleston tuttavia non sono tanto le motivazioni razziali della violenza. I sentimenti di razzismo, discriminazione e xenofobia sono aspetti della natura umana riscontrabili in ogni tempo, in ogni cultura e in ogni società a prescindere dall'ubicazione geografica, dalla composizione etnica e dal modello socio-economico. La peculiarità americana dell'episodio consiste, naturalmente, nella possibilità di questi sentimenti di passare dall'ambito puramente verbale e teorico delle chat room e dei meandri piú turpi della rete, alla realtà della cronaca grazie a quella illimitata e incondizionata disponibilità di armi da fuoco che caratterizza l'America, sulla quale sono stati già scritti fiumi di parole ma che continua ad essere uno degli aspetti piú bizzarri e inamovibili della cultura USA.
Anche nel suo discorso, pronunciato subito dopo la strage, il presidente Obama ha reiterato il fatto che la violenza e il razzismo esistono dappertutto ma che gli Stati Uniti sono un esempio unico tra le nazioni avanzate per la frequenza con la quale questi episodi si verificano.
Malgrado l'invito a fare i conti con questa cultura della violenza armata che Obama ha rivolto alla nazione, l'opinione comune è che alla fine le cose resteranno come sono perché se persino dopo la strage di Sandy Hook, nella quale un altro psicopatico uccise a sangue freddo venti scolaretti di una scuola elementare nulla è cambiato, non si capisce che cosa possa scuotere gli americani dal loro torpore apatico su questo problema.
Mentre nella Carolina del Sud si consumava l'ultimo e più recente episodio di violenza razziale nei confronti di afro-americani, a Spokane, nello stato di Washington, Rachel Dolezal, la presidente della sezione locale della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), la più nota ed influente associazione di diritti civili degli Stati Uniti, veniva pubblicamente smascherata dalla stampa locale per essersi spacciata per nera quando invece le sue origini etniche sono esclusivamente bianche.
La finzione perpetrata dalla Dolezal è, in sé, bizzarra al punto che la donna è arrivata a negare che il suo padre naturale fosse effettivamente tale dichiarandosi, falsamente, figlia di un afro-americano.
Mentre Dylann Roof quindi, odiava i neri al punto da decidere di ucciderne nove a sangue freddo, la Dolezal teneva la comunità afro-americana in tale considerazione da spacciarsi per uno dei suoi membri anche a costo di mettere in pericolo sia la sua credibilità personale e professionale sia i rapporti con i suoi genitori.
Per quanto la "gravità" dei due episodi non possa essere messa a paragone, la farsa inscenata dalla Dolezal è anch'esso un episodio tipicamente americano. La simmetrica specularità dei due casi riflette da una parte la paura atavica dei bianchi americani di "diventare" neri mentre dall'altra, un desiderio di diventare neri talmente pronunciato da consentire persino la reinvenzione della propria biografia.
Seppure i motivi profondi di questa estrema identificazione con un'altro gruppo etnico non siano del tutto chiari, è possibile, conoscendo la psicologia collettiva americana, che alla sua radice ci sia una implicita volontà di redenzione personale compiuta con lo scopo di voler espiare quei torti collettivi perpetrati dai bianchi nel corso dei secoli nei confronti della minoranza nera. Un'assunzione di responsabilità personale in altre parole, anche per colpe che di personale non hanno assolutamente nulla.
La vicenda di Rachel Dolezal mi ha fatto ripensare ad un episodio della serie radiofonica This American Life. Nella puntata, dedicata alla vita di cittadini statunitensi residenti in Francia, due donne americane a Parigi, tentano, per gioco, di saltare la coda alla biglietteria di un cinema contando sull'acquiescenza delle altre persone in fila intimidite dal fatto che le due donne fossero di colore.
Nelle parole di una delle due protagoniste dell'episodio: "Io e la mia amica abbiamo saltato spavaldamente la fila sfidando la gente in coda a fermarci. Uno stratagemma che avrebbe funzionato a New York. E invece questi bianchi francesi, non potevano credere ai loro occhi e si sono subito ribellati in massa ordinandoci di tornare indietro e rispettare la coda. Noi siamo restate di stucco pensando 'Ma come?… Questi sono bianchi ma non si lasciano intimidire?'. E in quel momento ho capito di non essere piú in America. Malgrado la figuraccia rimediata l'esperienza mi ha colpita positivamente e mi ha fatto rendere conto che questa situazione, questo giocare con i risentimenti razziali tra bianchi e neri non ha alcun senso e non funziona al di fuori dei confini degli Stati Uniti".
La storia mi sembra interessante perché esprime una percezione corretta di quella che dovrebbero essere le relazioni tra due gruppi etnici che coesistono: la disponibilità, nel bene e nel male, a vedere gli altri non come membri astratti di una categoria generica alla quale si affibbia un'etichetta preconcetta ma come individui con una propria storia e una propria dignità.