In queste ore, in questi giorni, divampa in Italia il dibattito sulla riforma della Scuola così come essa dovrebbe essere attuata nell’ottica del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, per il quale c’è bisogno dei presidi-sceriffi… Ennesima aberrazione, questa, con cui colpire insegnanti e studenti al tempo stesso. Ma non è che le cose andassero poi tanto bene anche in passato, sebbene per motivi assai diversi da quelli attuali.
La Scuola italiana che ricordo io, era da buttare; lo era almeno in termini umani, sociali. Dall’egalitarismo di stampo fascista, a partire dagli anni Cinquanta si passò alla Scuola classista. Il ricordo di questo scempio in me brucia ancora. Ma non perché ne venni colpito, no. Non avrei mai potuto restarne colpito, offeso: mia mamma mi vestiva con golf di Cachemire e di Shetland, pantaloni di gabardina, di flanella; ‘completi’ di grisaglia, di lino; scarpe “Lotus”, camicie su misura, cravatte “regimental”, Loden e cappotti di cammello. Quindi, mi trovai sempre e comunque in una botte di ferro. Si aveva “un occhio di riguardo” per me, per il rampollo di “buona famiglia”, per il ragazzo la cui chioma presentava “taglio pieno” e “sfumatura bassa”. Erano altri a subire la violenza morale di numerosi insegnanti, di miei insegnanti, soprattutto romani, romani e romane dei quartieri “chic”: Parioli, Trieste-Salario, EUR, Colle Oppio. Badate bene: professori e professoresse tutte antifasciste. Ne rammento bene i nomi, ma qui non è certo il caso di farli: sono morti, sono morte, lasciamoli e lasciamole in pace, anche se il fio non dovettero mai pagarlo. Toccava, sì, ad altri, esser messi alla gogna. Toccava ai figlioli, alle figliole di tranvieri, operai, impiegati d’ordine, commessi, uscieri, muratori… Ti veniva il voltastomaco, ti si stringeva il cuore: le pene interiori di tuoi compagni e tue compagne, erano ‘anche’ le tue.
Il Sessantotto italiano esplose anche per questa ragione. La sua fu un’esplosione legittima, sacrosanta: lo strapotere della classe insegnante rappresentava un’indecenza. Tutto era permesso agli “intoccabili”, agli inappellabili. Quanti occhi dolci e sorrisi smaglianti per quelli come me, e quante stangate all’indirizzo di quelli che non erano invece “come me”… Rammento un mio compagno di classe, Mario Della Pietra, anno scolastico 1961-62, qui a Roma, al quale un bel giorno scappò detto che suo papà (operaio) aveva combattuto nella Repubblica Sociale Italiana. Apriti cielo! La professoressa di turno – una “chic” che si presentava sempre in guanti bianchi – rovesciò “indignata” invettive non solo sul repubblichino, ma anche sul figliolo del repubblichino, il quale a un tratto uscì di classe con le lacrime agli occhi, il volto arrossato, il passo incerto. Fu angosciante.
Casi del genere erano piuttosto frequenti a quell’epoca, anche se molti di essi riguardavano genitori o parenti vari che non avevano aderito alla Repubblica Sociale. Era una “prassi”… Un “sistema”. Già a sedici anni si rischiava l’esaurimento nervoso. Lo rischiavano soprattutto le ragazze. Ne ricordo di mortificate, avvilite. Disperate. Il suo grosso rischio lo corse anche mia figlia Lavinia, una trentacinquina d’anni dopo, in un Liceo romano. Dove dovetti fare un bel giorno rumorosissima irruzione, affrontare la insegnante in questione davanti a tutta la classe attonita, basita, e all’insegnante intimare a brutto muso che non si permettesse mai più di attentare al sistema nervoso di mia figlia; la quale per l’ansia e la paura perdeva da vari giorni ciocche di capelli e aveva smesso di mangiare! Passato il vento del Sessantotto, che poi di storture ne aveva anch’esso create, s’era tornati al clima della mia presenza nella Scuola pubblica italiana.
Latino e Greco ce li insegnavano in modo egregio, come anche la Matematica, su questo non v’erano dubbi. I problemi semmai sorgevano con Italiano e Filosofia. In Filosofia ampio spazio, com’era giusto che fosse, a Platone e ad Aristotele; ma a noi Locke, Hobbes, Hegel, perfino Kant, non vennero mai spiegati come avrebbero dovuto essere spiegati. Avevamo voglia d’imparare. Avevamo un desiderio che non veniva soddisfatto.
Ancora peggio con l’Italiano e la letteratura sia italiana che straniera … Manzoni… Manzoni ci veniva impartito senza sosta, senza “pietà”. Professori e professoresse ne esaltavano il pensiero di “portata incommensurabile” e lo stile di scrittura, “efficacissimo, musicale”. “Incommensurabile”, il pensiero del vate lombardo non mi sembrò mai. La figura di Fra Cristoforo? Scontata… Renzo e Lucia? Due che, a quanto ricordo, avevano perfino paura della loro stessa ombra… La scrittura? Un macigno! Il trionfo della prolissità, della ripetitività, della ridondanza.
Eppoi, parecchio Carducci, parecchio Pascoli, tanto Foscolo. Ma ben poco di Federigo Tozzi, Ada Negri, Rosso di San Secondo. Quasi nulla sul formidabile Dr. Johnson, faro della letteratura inglese del Settecento: per scoprirlo dovetti andare a vivere a Londra…
La Storia: note, anche qui, dolenti… La Repubblica Romana del 1849 presentata come uno dei vari “moti” che attraversarono l’Italia risorgimentale, quando fu invece un’epopea, fu l’affermazione della modernità di Mazzini, Saffi, Armellini e la dimostrazione del grande valore dei romani che contro l’armata francese posta al servizio di Papa Pio IX si schierarono fin dall’inizio con la Repubblica: uno Stato avanti di oltre cinquant’anni sui propri tempi. Poche righe anche sulla Guerra Civile americana (1861-65), sulla prima guerra moderna della Storia, moderna per la straordinaria ampiezza del Fronte, per l’impiego delle ferrovie e per quello di artiglierie nuovissime, mai viste prima d’allora. Guerra moderna per i temi dai quali fu scatenata: la difesa nordista dell’integrità dell’Unione, la sconfessione sudista dell’Unione – l’Emancipazione dei neri.
Era una Scuola che tutto ti faceva davvero capire del mondo ellenico, del mondo di Pericle, degli Stoici, della Roma di Mario e Silla, Cesare e Augusto, Adriano e Marc’Aurelio. Tutto t’insegnava su Dante, Vico e Campanella, Foscolo e Carducci – e anche sul poeta “minore” Chiabrera. Ma lì si fermava. Non sapeva cogliere, non sapeva quindi interpretare i fermenti sociali e culturali del momento. Ecco: vasti spazi all’illustrazione, alla spiegazione; nessuno spazio all’interpretazione, all’analisi. Nessun incoraggiamento all’originalità di pensiero.
Fu una Scuola avulsa dai propri tempi come avulsa dai propri tempi ci sembra quella attuale: distaccata dal Paese “reale”, distaccata dai reali interessi dei cittadini e, in senso storiografico, avvitata intorno al convenzionale e ad un internazionalismo che cosmpolitismo non è.
Sul futuro della Scuola italiana moderna abbiamo grossi dubbi. La nostra impressione è che essa non sappia, o non voglia, disincagliarsi dalle pastoie d’un provincialismo ormai assai vecchio, sì, vecchio assai. Una Scuola oltretutto appesantita, almeno così ci sembra, da quantità monumentali di “red tape”.
La situazione è drammatica.