I film di Nanni Moretti sono sempre stati improntati ad un autobiografismo spinto, croce e delizia del suo cinema: nella maggior parte dei casi questa vena intima è stata in grado di assurgere ad un livello superiore e di “parlare” con efficacia di temi universali e della società, qualche volta ha invece determinato una chiusura, un avvitamento del racconto su se stesso con conseguente e inevitabile perdita di efficacia e di forza espressiva.
Cinema, quindi, per sua natura psicoanalitico data la sua stessa struttura di “discorso dell’altro”; negli ultimi tre film, Il caimano, Habemus Papam e quest’ultimo Mia madre, Moretti sembra aver indirizzato il suo cinema verso un nuovo meccanismo di costruzione di senso che garantisce un equilibrio emotivo più stabile. In questi ultimi lavori, il regista romano affida il personaggio principale ad un “altro" attore, ritagliando per se stesso un ruolo di secondo piano. Non è uno scarto da poco, in quanto questo passaggio permette un decentramento del discorso, una presa di distanza dall’autobiografismo e anche una maggiore capacità di ascolto di sé: le nevrosi e la materia psichica vengono distribuite su almeno due figure diverse, una delle quali alienata e quindi letteralmente inquadrata da una distanza meno incandescente.
In Mia Madre succede esattamente questo: Moretti ci racconta una dimensione intima come quella che riguarda la sfera dell’elaborazione del lutto e lo fa proiettando se stesso nella figura di una regista donna, Margherita (Margherita Buy) che, mentre gira il suo nuovo film, affronta gli ultimi giorni di vita di sua madre, il cui cuore sta progressivamente cedendo, e deve prepararsi per elaborare il distacco. Nel frattempo, mentre i ricordi riemergono, si sovrappongono e si intrecciano, un’altra parte della sua vita va avanti, con essa e “dentro” di essa il lavoro e soprattutto le responsabilità di madre verso la figlia adolescente Livia, che in un ideale passaggio di consegne il congedo dall’anziana genitrice sembra rivestire di una consapevolezza adulta parzialmente nuova. Moretti interpreta la parte del fratello di Margherita, quello razionale dei due, probabilmente la “proiezione” di una parte (superegoica) dell’io di Margherita, il personaggio che probabilmente il regista, un po’ come tutti, vorrebbe essere, nell’affrontare questo genere di avvenimenti con lucidità, autocontrollo, razionalità.
Il risultato di questa costruzione equilibrata è un film di grande sensibilità, che tratta il dolore con una delicatezza e una leggerezza di tocco molto rare, che evita il patetico, non cerca empatia a buon mercato ma al limite soltanto la comprensione serena di una vicenda tutta umana e per questo comune, in cui rispecchiarsi, commuoversi e di cui anche, in fondo, saper sorridere, come “suggerisce” il personaggio interpretato da un divertentissimo John Turturro. La capacità di Moretti di usare i dettagli materiali, veri e propri correlativi oggettivi in cui si condensano nuclei di significato, è straordinaria: i piccoli ricordi in casa della madre, le bollette del gas e della luce, le toppe per i gomiti dei maglioni, e soprattutto i dettagli in ospedale, le bende, le garze, le flebo.
Scriveva Gadda, nelle ultime battute de La cognizione del dolore: “Parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire : Io. L’ausilio dell’arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua e alcool dalle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella”. La “cognizione del dolore” di Moretti è questa, un film incredibilmente sottovalutato in Italia, che potrebbe essere giustamente valorizzato nella roccaforte del regista romano, alla settima partecipazione qui sulla Croisette.