Il Corriere della sera si è indignato perché un gruppo di fanatici armati e vestiti di nero (per questo metonimicamente identificati con l’Isis in generale: definirli con il loro autentico nome, miliziani di Wilayat Barqa, non avrebbe avuto lo stesso effetto) ha bruciato degli strumenti musicali – occidentali, a quanto vedo nelle foto. Non capisco in che modo una notizia del genere possa riguardarci: sarei in piazza a protestare o in montagna a combattere se lo facessero in Italia e ritengo che consentire a individui che la pensino in quel modo di immigrare nel nostro paese sia un errore – troppo distanti i loro valori da quelli che faticosamente riusciamo a condividere.
Però trovo rivoltante il senso di superiorità culturale che traspare nell’articolo. Si continua a cadere nell’equivoco che occorra uniformarsi a un unico tipo di comportamento: quello “giusto” o “civile”, che molto spesso coincide con quello a cui ci siamo abituati, magari da pochi anni. Penso invece che ciascun popolo e ciascuna comunità debba essere libera di scegliere le pratiche sociali e culturali che preferisce, senza ingerenze esterne, nel nome della differenza e della reciproca tolleranza. Quando ciò non fosse possibile, ossia nel caso di profonde incompatibilità, sarà sufficiente bloccare i contatti e impedire gli scambi di persone, merci e capitali. Un’eresia, per la teologia del libero mercato: che è infatti il nostro vero problema.
Di roghi ce ne sono stati tanti in Occidente, e non parlo dei libri bruciati dai nazisti. Pensate ai falò della vanità, a Firenze in pieno Rinascimento, in cui vennero gettati nelle fiamme non solo vestiti e cosmetici ma anche manoscritti e dipinti “profani” e, anche allora, liuti e altri strumenti musicali: una vera ondata di moralismo talebano che poi si esaurì e nel fuoco ci finì il suo ispiratore, Savonarola. Ci fosse stato già allora, il Corriere della sera avrebbe usato il pretesto per creare il grado giusto di oltraggio per rendere “necessaria” un’invasione di Carlo VIII o Ludovico Sforza. Oppure pensate ai più cruenti auto-da-fé degli eretici, nella Spagna di fine Quattrocento, subito dopo la conclusione della Reconquista: disumani, ma avrebbe avuto senso fermarli con un intervento “per motivi umanitari” da parte, mettiamo, del Califfo appena estromesso o del re di Francia?
I paesi, i popoli, le comunità devono essere lasciati maturare e crescere per conto loro, anche quando ciò comporti errori, soprusi, violenze. Perché qualunque intervento esterno finirà con l’essere gestito da profittatori ed esclusivamente allo scopo di derubare quei popoli delle loro risorse, naturali e umane. Solo quando uno stato attacchi militarmente un altro diventa ragionevole discutere di guerra; o nei rari casi in cui davvero sia in corso, in una nazione, il sistematico genocidio di una popolazione in condizioni di palese squilibrio di forze. Altrimenti, anche lì, è meglio che imparino a difendersi da soli e che alle atrocità rispondano con atrocità, come comunque succede in ogni caso, solo che almeno il processo potrà portare a una presa di coscienza e all’autonomia. Il “fardello dell’uomo bianco”, come lo chiamò Kipling in una poesia che divenne il manifesto dell’imperialismo, è solo una scusa per esportare la propria visione del mondo e in quel modo, inevitabilmente, esporsi non solo a rappresaglie ma anche all’indebolimento dei propri stessi valori. Parlo della gente comune e dei lavoratori: perché i valori dei ricchi e delle grandi imprese si riducono a uno, il profitto, e state sicuri che ogni guerra gliene porta, di profitti, in abbondanza.
Questo è il gioco della globalizzazione: che usa le diversità e incomprensioni fra culture per appiattirle tutte nel consumismo e imporre ovunque il culto del denaro e del successo. Invece di preoccuparci degli strumenti musicali bruciati in Libia, preoccupiamoci della cultura italiana, inclusa quella musicale, in drammatica decadenza e non per colpa dell’Isis.
Altri articoli di Francesco Erspamer nei blog Controanalisi e Il pensiero inelegante.