Se è vero che il vino è uno dei piaceri della vita, è altrettanto vero che oggi è anche un importante settore di business e un mercato che continua a espandersi in ogni angolo del globo. A New York questa settimana c'è stata VINO 2015 – Italian Wine Week, la manifestazione promossa e organizzata dall'ICE per far conoscere il settore vitivinicolo italiano sul mercato americano. “Far conoscere”, a dirla tutta, è un disfemismo, dato che il vino italiano è il prodotto d'importazione numero uno negli USA, conosciuto, apprezzato e bevuto a litri. Basti pensare che sul totale dell'import italiano – oltre 40 miliardi di dollari di merci che ogni anno arrivano dall'Italia – il vino rappresenta una buona fetta: su 3 bottiglie di vino importate negli States, più di una proviene proprio dal nostro amato Belpaese.
Il mercato del vino italiano negli States
A darci un po' di numeri è il direttore dell'Italian Trade Commission (ICE), Pier Paolo Celeste, che incontriamo in una delle stanze del labirintico Woldorf Astoria, la prestigiosa sede che ha ospitato l'evento.

Il Direttore dell’ICE, Pie Paolo Celeste.
“Ogni giorno, vengono importati dall'Italia agli States 850.000 litri di vino, per un giro d'affari che si aggira intorno agli 1,8 miliardi di dollari. A VINO 2015 ci sono 1.200 etichette provenienti da 17 regioni italiane, tra cui le 4 regioni della convergenza (Puglia, Campania, Calabria e Sicilia), sulle quali puntiamo molto perché i vini del Sud sono sempre stati troppo misconosciuti, cioè non solo conosciuti poco, ma anche interpretati male. C'è da dire che la qualità è aumentata tantissimo, e questo perché ci sono produttori seri. Nel 2014, per esempio, che è stato un anno disgraziato dal punto di vista climatico, le quantità sono diminuite tantissimo, ma pur di mantenere alta la qualità le aziende hanno fatto enormi sacrifici. Sono calati i litri, ma la qualità è rimasta tale. Ormai ci stiamo facendo un bellissimo nome e tra l'altro stiamo entrando intelligentemente nella fascia di marketing che più viene venduta tra gli americani: tra i 9 e i 12 dollari al retailer, noi siamo i primi assoluti ed è una fascia che cresce al ritmo del 15% l'anno”.
Il vino che viene dall'Italia, insomma, piace e gli americani stanno imparando sempre più a conoscerlo ed apprezzarlo. Tra questi, anche il prosecco, cresciuto del 32% nel 2014, e il lambrusco, che a detta di Celeste pare avere una nuova fase di rilancio.
L'ICE, e questa è stata la grande novità dell'edizione 2015 dell'evento, è riuscita a risolvere anche una delle principali problematiche con cui le aziende esportatrici hanno dovuto fare i conti per tanti anni: l'assenza di un importatore in loco, qua negli States. Delle 350 cantine presenti all'evento, ci ha spiegato Celeste, quasi il 45% non ha un importatore e fino a qualche anno fa se un retailer o un grossista fosse stato interessato a comprare il vino assaggiato in uno dei banchetti esposti, l'azienda espositrice avrebbe dovuto rimediare un importatore per poter concludere la vendita. Quest'anno, invece, qualcosa grazie all'ICE si è mosso.
“A VINO 2015 – ci ha spiegato Celeste – siamo riusciti per la prima volta ad affiancare alle imprese una società che fa da importatore temporaneo: una volta formulato, l'ordine d'acquisto è stato poi passato all'importatore temporaneo, che ha valutato le quantità, formulato il prezzo e quindi fatto vendere immediatamente all'azienda. Soltanto il primo giorno di manifestazione abbiamo aiutato 24 aziende presenti all'evento. C'è chi ha venduto piccole quantità, ma anche chi ha piazzato migliaia di dollari”.
Abbiamo chiesto a Celeste, e chi meglio di lui può dirci la sua, se per un'azienda esportare negli States possa essere un modo per far fronte alla crisi che ha investito ormai da anni il nostro Paese, una sorta di trampolino di lancio per sfangarla, oppure un rischio che espone a eventuali tracolli finanziari.
“Il mercato è vasto, sofisticato e complesso: 50 Stati sono 50 Paesi diversi. Ma il rischio non c'è se uno segue le regole, se l'imprenditore, cioè, crede nel mercato – il che non significa venire per due giorni e poi sparire, cosa che agli americani non piace affatto – valuta il grado di apprezzamento del prodotto proposto e investe un minimo di soldi”.
Quindi, se si viene preparati e con la giusta attitudine, nel mercato americano c'è spazio per tutti. Anche per quelle proposte più elitarie che accontentano una fascia di consumatori più ristretta, come nel caso di Slow Wine.
Slow Wine

Il curatore della Guida Slow Wine 2015, Fabio Giavedoni.
Rientrano nella categoria Slow Wine tutti quei vini italiani che si contraddistinguono non solo per le loro qualità sensoriali, ma anche per la loro abilità nello sposare l'ecosostenibilità produttiva. Le cantine da cui provengono, infatti, dalla coltivazione alla produzione finale, preferiscono metodi cosiddetti puliti, con un'attenzione particolare alla salute dell'ambiente e dell'uomo. È un ritorno a quella sapienza contadina che piuttosto che innovare e stravolgere la cantina, cerca di agire prima di tutto sulla campagna. Un mondo che negli ultimi 5 anni in Italia è cresciuto in maniera esagerata. A illustrarlo è Slow Wine 2015, la guida edita da Slow Food e realizzata con la collaborazione della Federazione Italiana Sommelier, Albergatori e Ristoratori.
“Non è una guida di vini – ci ha spiegato uno dei suoi curatori, Fabio Giavedoni – ma di aziende che producono vino. Raccontiamo le loro storie, i loro territori di appartenenza, il modo in cui interagiscono con la campagna e i metodi produttivi scelti, parlando anche dei vini e dando delle indicazioni ai lettori”.
Su questa cosa della storia e della tradizione gli americani ci vanno matti tant'è che, al di là di ogni pronostico, la Guida negli States è piaciuta.
“Su 1.900 aziende recensite – ha continuato Giavedoni – la chiocciola di Slow Wine se la sono aggiudicata soltanto coloro che oltre a produrre del buon vino, lo fanno con una idea, con una filosofia, con una grande attenzione al territorio e alla sostenibilità, e avendo alle spalle una storia e una tradizione. Veicolano, insomma, cultura e territorio assieme e considerano quasi più importante quello che c'è fuori da quello che c'è dentro al bicchiere di vino. Quello che c'è dentro a noi piace, poi di questo volendo si può discutere…”.
E discutiamone, dato che non tutti sembrano avere la stessa idea su questo modo “naturale” di produrre vino. Per Celeste si tratta di un approccio al mercato completamente diverso, ma nel quale sicuramente si può trovare posto. “Inoltre – ci confessa il Direttore dell'ICE – gli amici di Slow Wine fanno un lavoro che è fondamentale: educano i consumatori senza scapitare la qualità. Fanno education e tutti coloro che affiancano l'ICE e fanno education per me sono i benvenuti!”.
Non la pensa proprio allo stesso modo il Attilio Scienza, docente di Agronomia all'Università degli Studi di Milano, intervenuto nella session dedicata all'impatto dei cambiamenti climatici sui vigneti di tutto il mondo. “Cos'è? Il vino che va piano?”, ha esordito così alla mia domanda su cosa ne pensasse dei cosiddetti vini slow wine. “Il vino è un prodotto dell'intelligenza e della tecnologia, non della natura: senza l'uomo il vino non nasce. Non credo a chi dice che il vino è naturale e viene su da solo. Per me sono tutti vini dell'angoscia”. E mi ha spiegato che quelli che producono questo vino (per Scienza qualcosa di imbevibile e quasi un vade retro Satana) vengono dalla città e vedono nella viticoltura biodinamica la soluzione alle loro psicosi. “Di sicuro quelli di Slow Wine non saranno d'accordo con me”, mi ha confidato sorridendo. Ma ben venga il libero pensiero!
Ed effettivamente quelli di Slow Wine non la pensano proprio come il Professor Scienza, ma hanno un approccio piuttosto obiettivo alla questione. “C'è chi questo vino non lo ama. Ci sono anche delle aziende che producono un vino sbagliato. Ma questo noi lo sosteniamo. In Italia c'è una grande tendenza talebana a produrre vini naturali, senza cioè intervenire e lasciando che seguano il loro corso, ma spesso producono un vino che ha dei difetti. Noi invece, pur privilegiando anche altre istanze delle aziende, siamo più laici e cerchiamo di mantenere un approccio alla degustazione classico”.
Climate change

Il Professor Attilio Scienza.
Abbiamo nominato i cambiamenti climatici, cui è stato dedicato un dibattito durante la cinque giorni dell'evento. E anche qui, tra chi è convinto della loro esistenza e chi no, ognuno si è fatto la propria idea. Gli effetti del surriscaldamento globale si fanno sentire anche sui vigneti: sbalzi climatici e fenomeni estremi influiscono sui raccolti e di conseguenza sulla produzione, la qualità e il sapore del vino.
Per Giavedoni la soluzione è tornare all'antico. “C'è un po' un'impreparazione nell'affrontare questo genere di fenomeni atmosferici eccessivi, ma le cose non si cambiano in cantina o con chissà quali strumentazioni tecnologiche, si cambiano in campagna. Si deve ragionare su come coltivare la pianta, come intervenire sul vigneto, senza seguire schemi, ma guardando la pianta e muovendosi di conseguenza. Negli ultimi 30 anni c'è stata un'enorme innovazione in cantina, ma nessuno ha tirato fuori qualcosa di nuovo riguardo alla campagna. Se c'è qualcosa che oggi si sente dire di interessante in agronomia sono cose che sapevano i nostri nonni”.
Scienza è ottimista: “L'uomo ha sempre dovuto combattere col clima e ne ha fatto un elemento di progresso. Sono convinto che i cambiamenti climatici determineranno una grande accelerazione verso l'innovazione. Oggi si genera angoscia intorno al clima, quando in passato il clima veniva considerato qualcosa di ineluttabile. Non dico di tornare alle origini, ma nemmeno di vivere nell'ansia o nel terrore del caldo o del freddo”.
E come si adegua il settore? Il settore dovrà sapersi adattare, e di questo più o meno ne sono convinti quasi tutti: modificare la tecnica culturale, le tecniche di cantina e, nel medio periodo, iniziare a delocalizzare le viticolture o puntare su altre qualità.
Gli espositori italiani presenti a New York

Un momento del Music, Wine & Dinner Pairing.
Tra un assaggio e un altro, ci siamo addentrati tra i banchetti di VINO 2015 a conoscere gli espositori e a capire anche il loro punto di vista. Ce n'è per tutti i gusti: dal Nord al Sud, dal secco al dolce, rosso, bianco o rosè, piccole o grandi aziende. Dalle prime edizioni dell'evento a oggi il parterre è di gran lunga migliorato, sia in termini qualitativi che numerici. Ne abbiamo intervistati alcuni.
Tiziana Settimo, della Aurelio Settimo Società Semplice Agricola (provincia di Cuneo), che a New York ha portato il Barolo Rocche dell'Annuziata, riserva del 2010, molto giovane, bellissimo nel profumo, già molto aperto, ma che per poterlo gustare si dovrà aspettare ancora almeno un paio di anni di bottiglia.
Giovanni Dri, venuto a VINO 2015 per far conoscere agli americani il Ramandolo, “un vino perfetto – ci ha assicurato – per concludere decentemente il pasto, o prima del dolce o contemporaneamente ai formaggi".

Annette Lizotte
Annette Lizotte, della Tenuta Tomasella a Mansuè in provincia di Treviso (ma a 2 km dalla provincia di Pordenone, dove ha un secondo vigneto nella DOC Friuli Grave), che produce vino dal 1965, ormai da 50 anni quindi, attraverso una viticultura di precisione e la collaborazione di un grande signore del vino per quanto riguarda la vinificazione, Angelo Solci. La Tenuta Tomasella ci ha presentato il suo Osè, uno spumante unico nel suo genere, adatto a tutti tipi di cibo.
E poi ancora: Luca d'Andrea, con il suo prosecco biologico Terre di Marca, Alessandro Ciani, della Ciani Winery, e Marcello Miali, brand manager del Wineries of Italy Consortium, un consorzio che raggruppa piccoli produttori e offre prodotti di alta qualità a prezzi molto competitivi.
All'evento di chiusura della manifestazione una proposta alquanto originale: un Music, Wine & Dinner Pairing, che ha coinvolto tutti gli invitati in una degustazione uditiva, olfattiva e gustativa: un primo, un secondo e il dolce, ciascuno accompagnato da una coppia di bicchieri di vino (un riesling e un Fiano, un Negramaro e un Nero d'Avola e due vini da dessert, tra cui anche il Ramandolo) e servito con un accompagnamento musicale che dal Country è arrivato al Rock & Roll, passando per il Blues. Perché il vino, e anche qui c'è chi ne è convinto (ma del resto come dargli torto), può ispirare una musica e una musica il vino. L'idea, presentata da City Winery e pienamente sostenuta dal padrone di casa ICE, è piaciuta molto anche al pubblico dei partecipanti, che abbandonato ai piaceri dell'assaggio ultrasensoriale si è scatenato in un forsennato ballo di massa. Dalle nostre riprese video, che pubblicheremo a breve, vedrete che in pochi sono rimasti a sedere. Che siano stati gli astemi?