Abbiamo letto con piacere il recente articolo di Marcello Cristo sul Football Americano, su come questo sport sia seguito e vissuto negli Stati Uniti e sull’”indignazione” di numerosi americani per la sua ben scarsa popolarità in Italia, Inghilterra, Francia, Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica e via dicendo.
Se Marcello Cristo parla d’indignazione popolare dalla Florida alla California, dal Massachusetts all’Arizona, allora vuol davvero dire che, sotto quest’aspetto, i cittadini della più grande democrazia del mondo ci muovono le seguenti accuse: noi Non-Americans non abbiamo nessun senso estetico, nessun gusto per la contesa a viso aperto, impetuosa, guerriera; ci sfugge la suprema bellezza del quarter-back che con una spettacolare, impietosa rasoiata, o con un “tiro di mortaio” egualmente suggestivo, spedisce al touchdown il wide receiver e allora, com’è giusto che sia, viene giù lo stadio e si acclamano quindi gli eroi che hanno piazzato la formidabile stoccata. Insomma, gli americani non ce la perdonano… Per molti di loro noi europei siamo i “pigri” e i “truffaldini” di sempre (leggere il Vecchio Cabot Lodge che classificava noi italiani come di “ceppo negroide”), siamo tuttora individui i quali cercano il grosso risultato attraverso il minimo sforzo; tizi che, appunto, non sanno cogliere la grandezza dell’American Football, del gioco a tutto campo, dello sport che è danza come anche trincea; perfino "insensibili" al fascino del running back che dalla retrovia sfreccia impavido e imprevedibile sulla “linea del fuoco” e spacca in due la difesa avversaria.
Allora, come mai il Football Americano non riesce a sedurre noi europei dopo i vari tentativi eseguiti dagli anni Ottanta in poi in Italia, in Germania e altrove? Come mai non incanta maori e neozelandesi bianchi, boeri e neri degli altipiani sudafricani, aborigeni del Queensland e “Aussies” di ascendenze inglesi, irlandesi e quindi argentini, cileni, uruguagi?? Anche noi tanto tempo fa ci domandavamo – e montavamo in cattedra… – per quale ragione il calcio non sfondava negli Stati Uniti; come mai lasciava indifferenti gli americani “il gioco più bello del mondo”: lo Sport di Pelè, Boniperti, Charles, Sivori, Charlton, Best, Rivera, Eusebio?
Domande, secondo noi, sterili, superflue: le une e le altre. A ognuno il proprio sport, per il gaudio e la felicità dei popoli! Se poi molti americani non riescono a farsi una ragione del ben scarso “appeal” del loro football presso noi europei, il problema non può essere certo nostro: è, appunto, un problema americano. E poi non è detto che il football americano debba trovare a tutti i costi il suo “sbarco in Normandia” e ricevere deliranti acclamazioni da francesi, tedeschi e italiani. Come non è detto che il calcio debba essere “imposto” ai cittadini dell’Unione.
American Football. Perché? Perché è sorto e s’è sviluppato nel modo in cui negli Stati Uniti mobilita folle sempre più imponenti, esercita una presa massiccia sui ragazzi, offre tuttora il bellissimo campionato dei college? Il Football Americano nacque proprio nei ‘college’, nelle università. Non nacque nelle miniere o nelle fabbriche, nelle campagne o nei cantieri navali, dove invece nacque e crebbe alla svelta il Rugby gallese, e questo avvenne nello stesso periodo storico: la seconda metà dell’Ottocento.
Gli Stati Uniti del periodo compreso, grosso modo, fra la fine della Guerra Civile (Grant e Lee, Lincoln e Davis, Gettysburg e Fredericksburg, ‘Via col vento’) e la vigilia della Prima Guerra Mondiale sono una nazione in cerca di se' stessa. Una nazione nella quale – specie dopo il cataclisma della guerra civile esplosa nel 1861 e terminata con la vittoria dell’Unione nel 1865 – s’avverte sempre di più l’esigenza di creare “un carattere americano”, “uno stile americano”, ‘un’estetica americana”: doveva avvenire un distacco pressoché completo dall’Europa e, soprattutto, dalla Gran Betagna, iniqua perché monarchica, classista e tradizionalista. L’America è vasta, l’America è grande… Con l’avvento della Ferrovia che, in modo ineluttabile, fatale, guarda a Ovest, guarda alla California, all’Oregon, al Colorado; la deriva dall’Inghilterra, dall’Europa assume proporzioni sempre maggiori.
Balza a questo punto sulla scena il molto “dashing”, “uncompromising”, Walter Camp, rampollo di un’agiata famiglia di lontane origini (a quanto ci risulta) anglo-olandesi; nato nel 1859 a New Britain, Connecticut: liceale brillante, studente in Medicina, quindi artefice d’un proficuo approdo al commercio. Ha studiato in un college di chiara fama come Yale. E’ lui che ha per primo l’idea di rivoltare come un calzino lo sport del rugby per farne l’American Football, “the American Game”, “the Game of the Americans”. Altri “yanks” hanno la stessa idea per quel che riguarda il cricket, che intorno alla metà dell’Ottocento diventa, appunto, il baseball: il gioco che ci darà Babe Ruth, Lou Gehrig, Joe Di Maggio, Reggie Jackson. Questa è l’America. L’America che nutre, eccome, la volontà d’acquisire una sua grande, indiscutibile, esemplare unicità che lasci sbalordito il resto del mondo. Che sia “d’esempio” al resto del mondo. Che a europei e sudamericani faccia venir la voglia d’essere americani!
Camp comincia dal “tackle”, comincia dal placcaggio. Nel Rugby placcare un avversario senza che questi sia in possesso del pallone, è un’eresia, una bestemmia. Ebbene, Camp dall’alto d’un prestigio presto raggiunto a Yale e altrove, introduce il placcaggio libero, vale a dire che anche il giocatore senza pallone può essere investito e abbattuto! Dalla sua mente zampillano altre regole, altre norme, come la creazione dei ‘down’, 1, 2, e così via. Insomma, il Padre del Football Americano è lui, lo “stalwart” dell’America che corre incontro al Novecento e che, sissignori, vuole stupire, vuole incantare. Lanciare mode, proporre divertimenti. Puntare sulla praticità. Bruciare le tappe.
Bello il football americano. Saremmo mentecatti se lo negassimo. Il gioco è veloce. Le collisioni tolgono il fiato. Il quarter-back appare come un semidio! E’ lo sport su misura per gli americani. Ma non per noi… E’ un gioco “troppo” frammentario… Nei miei 10 anni trascorsi a New York, non ho mai visto più di 2 passaggi di fila, mai visto un wide receiver trasmettere il pallone a un compagno: un giorno mi venne detto che, per regolamento, il wide receiver deve fare tutto da sé… Per regolamento non può servire il compagno. All’Inferno in solitudine. O verso la gloria, in solitudine, certo. Così come non ho mai assistito a una manovra che sia durata più di 3, al massimo 4 secondi. Ma ho visto giocatori della formazione in difesa non toccare neanche un pallone per una, anche due stagioni…
Qui si ha a che fare con un Gioco “troppo” schematizzato. Un gioco in cui il rovesciamento di fronte e il contrattacco corale, risultano inesistenti. C’è il fumble, certo, ma dal fumble nulla si sviluppa all’istante: si ferma il gioco e si riparte con il possesso per la squadra che ha costretto appunto al fumble l’antagonista. C’è, eccome, l’intercetto, il più delle volte effettuato con strepitosa scelta di tempo, con ammirevole rapidità. Ma, anche qui, l’iniziativa è lasciata soltanto al giocatore impossessatosi del pallone. Perché i sommi legislatori della NFL non permettono a lui e al wide receiver di passare all’occorrenza l’ovale a un compagno?
Uno sport così, per quanto impegnativo, ricco di brio, nobilitato da quarter-back, running back, receiver, line-backer, non potrà mai avvincere, affascinare italiani, inglesi, francesi, neozelandesi. Mai. E’ così diverso da quel rugby che, come abbiamo visto, gli dette i natali, e glieli dette prima ancora del Massacro di Wounded Knee, prima ancora che a Manhattan fosse costruito il Flatiron Building.
Il Rugby è lo sport dell’assalto collettivo, della difesa collettiva, dei ribaltamenti di fronte, dei cambiamenti di passo, del calcio tattico con cui si ricaccia indietro di 40 metri la squadra avversaria che quindi va a vuoto dopo aver sputato sangue e versato sudore. E’ lo sport in cui il capitano ha tanto potere, tanto spazio, tanto ascendente sui compagni quanti ne ha l’allenatore stesso. Qualcuno mi corregga se sbaglio, ma mi pare che il football americano non preveda la figura del Capitano. Peccato!
Nell’American football si procede di frazione in frazione, e l’opera è comunque dura, anzi, durissima, specie nello ‘scrimmage’. Nel Rugby, invece, la partita è tutta un “divenire”, una tessitura, una realizzazione “architettonica”. Una “plot” nella quale ogni fase è connaturata all’altra, funzionale all’altra: non vi sono interruzioni, non vi sono fasi o movimenti fini a se stessi. Ogni giocatore ha la sua brava quantità di palloni. Ogni giocatore è riconoscibile dal pubblico: nel Rugby non ci si serve di elmetti e corazze.
Qui non abbiamo fatto paragoni fra uno sport e l’altro. Non sarebbe stato di buon gusto, non sarebbe stato giornalistico farne. E’ giusto che per chi ama il proprio sport, esso sia “il più bello del mondo”. Comunque, noi che pratichiamo il rugby, non ci sentiamo affatto “incompresi” se il rugby negli Stati Uniti non fa impazzire le masse. Eppure, alla Coppa del Mondo, di quattro anni in quattro anni, gli Stati Uniti inviano compagini assai buone, capaci di creare problemi alla nostra Nazionale nella Coppa del Mondo del 1991 e in quella del 2011.
Insomma, non si cerchino “primati”. Non si dica che uno sport è molto meglio d’un altro. Ci sono sport che si addicono a un popolo, a una società piuttosto che ad altri. E’ sempre, e comunque, una questione antropologica.