Sabino Cassese è un giudice della Corte Costituzionale. Alcuni rumors lo presentano come un possibile successore di Giorgio Napolitano. Sicchè quello che ha detto potrebbe avere quel tanto di vibrazione retorica che sempre accompagna la volontà di segnalarsi. Precisato questo, e precisato che sto facendo le pulci ad un gentiluomo di cui è proverbiale la compostezza e la competenza, vediamo ora che cosa ha detto il Prof. Cassese. Ha detto: “Mi pare che i giudici abbiano difettato di umanità”. Anche considerato in generale, il giudizio non è rassicurante. Giacchè un giudice di cui si fosse conclamata la mancanza di umanità, in un mondo ordinato, dovrebbe essere licenziato in tronco. E un sistema che questo impedissse (come in effetti impedisce) rivelerebbe tutta intera la sua natura sopraffattrice.
Ma se osserviamo più da vicino, le cose, se possibile, peggiorano. Si stava riferendo alla richiesta avanzata dall’ex Presidente della Regione Siciliana, Salvatore Cuffaro, di poter rendere visita alla madre novantenne, a quanto pare in fin di vita. E al “rigetto dell’istanza”, pronunciato dal magistrato di sorveglianza di Roma. Per questo il rilievo sull’umanità appare tanto più pertinente.
E non è ancora finita. Il detenuto Salvatore Cuffaro non può rendere visita alla madre perchè questa ha l’Alzheimer, sostiene chi ha impedito l’incontro. Vale la pena (è proprio penoso) riportare le precise parole del provvedimento: “Il deterioramento cognitivo evidenziato svuota senz’altro di significato il richiesto colloquio, perchè sarebbe comunque pregiudicato un soddisfacente momento di condivisione”. Senza addentrarsi nel groviglio del “deterioramento cognitivo”, il Prof. Cassese aveva rilevato in ogni caso quel difetto di umanità, “Anche perchè non c’è solo il diritto della madre di vedere il figlio, ma anche l’inverso”.
Quello “svuota di significato”, così pretenzioso, così meccanicamente micidiale, non può sorreggersi sul tipo di condanna, in questo caso per favoreggiamento di un uomo d’onore, cosiddetto. Tutti i provvedimenti della magistratura di sorveglianza presuppongono una condanna, e non dovrebbero perciò considerare il comportamento già giudicato, di cui ci si è occupati nel giudizio, per così dire, principale. Semmai assume preponderanza la condotta carceraria, che, nel caso di Salvatore Cuffaro, è stata fin qui unanimemente ritenuta encomiabile. Sicchè, considerata la richiesta anche solo dal punto di vista del figlio, lo “specifico” del detenuto avrebbe dovuto autorizzare e non negare l’incontro materno.
Quello “svuota di significato”, allora, tradisce una filigrana mostruosa: quella per cui vi sono sempre vite indegne di essere vissute; o, che è lo stesso, indegne di essere considerate vite, vite umane, con le infinite e spesso insondabili espressioni di umanità. Magari succede un putiferio se uno dà uno scappellotto a un cane, e subito si trova un bel pubblico ministero pronto a “farsi carico” della “intollerabile inciviltà” canicida (obbligo dell’azione penale). Però se uno dice ad un figlio che sua madre non è sua madre, ma una specie di tronco subumano, incapace di un “momento di condivisione”, che lo animasse con slancio proprio o alimentando un palpito altrui, allora è tutto a posto: d’altra parte siamo in Italia, dove i giudici possono tutto quello che vogliono.
In una tale ferocia, che si bea della sua stessa impunità protocollare, c’è l’eterno fondamento della tirannia. E non sfugga il “soddisfacente”: perchè una madre e un figlio sono tali, si badi, solo se capaci di esprimersi ad un grado “soddisfacente”: per cui magari una carezza non lo è. Quando c’è una tirannia ogni altra questione, passa, o dovrebbe passare, in secondo piano. Ciò che ferisce immedicabilmente è l’autorità libera di infierire e sicura di non pagare per questo. In Italia i magistrati sono intoccabili: perchè sono, da circa vent’anni, al centro di un sistema di potere che esautora la democrazia parlamentare e costituzionale. La violenza istituzionale ha sempre avuto i suoi miserabili cantori; e non c’è maggior violenza di quella che sbeffeggia la dignità di un essere umano, colpendola proprio nel suo nucleo fondante di mistero generatore. Ma c’è una cosa che è più abominevole dell’abominio stesso e dei suoi cantori: il silenzio sull’abominio; la tendenziale indifferenza per la stabile scorreria, purchè ipocritamente al riparo di un qualche sussiego salmodiante. Atto dovuto, conforme alla legge, impersonalità dell’ufficio, unicità delle carriere come attributo della “cultura della giurisdizione”. Sono solo menzogne ben pagate.
In Italia la legalità ha ucciso la Giustizia.