Cent’anni. Cent’anni fa l’Italia conosceva il suo ultimo Natale di pace prima di quello del 1918. Ma dal 1915 all’anno della Vittoria il trascorrere del tempo sarebbe sembrato crudelmente lento, “disumanamente” lento, almeno fino a che il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III si sarebbe deciso a sostituire come capo di Stato Maggiore e comandante supremo delle Forze Armate il fallimentare Generale Cadorna e ad affidare le sorti dell’Italia in guerra al ben più umano, attento, ma deciso, Generale Diaz.
Cent’anni in fondo non sono poi tanti. Ma nella circostanza, ci sembrano un’eternità. In questi cent’anni si sono avute due guerre mondiali, tre guerre in Estremo Oriente (Corea, Indocina, Vietnam) e quattro conflitti arabo-israeliani. In questi cent’anni s’è inventata e usata la Bomba Atomica, s’è scoperta la penicillina, sono sorti e caduti il Fascismo e il Comunismo; s’è creata la “civiltà dei consumi”, s’è lanciata la “civiltà dell’automobile”; dopo la radio e il telegrafo senza fili, è arrivata la televisione, strumento inquietante, per l’uso che se ne fa, strumento il quale da una trentina d’anni a questa parte, provoca mutamenti antropologici che ci sconcertano, ci scoraggiano, ci rattristano.
E’, sì, lontano il 1914; lontano il Natale del 1914 che da quattro mesi assiste all’immane collisione tra Impero Britannico, Francia, Russia, Bulgaria, Serbia da una parte e Germania, Austria-Ungheria, Turchia (Impero Ottomano), Romania dall’altra. Nel dicembre del 1914 la guerra è da tre mesi circa guerra di posizione: la “regina” mitragliatrice inchioda in trincea masse di soldati mai viste prima d’ora, mai viste nemmeno all’epoca delle guerre napoleoniche.
Non si sa chi vincerà. L’esito del conflitto appare davvero incerto. Per ora l’Italia resta a guardare. L’Italia del 1914 è un Paese quasi del tutto agricolo. Poche, sebbene di altissimo livello, le industrie, concentrate soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria, un po’ meno in Emilia e in Toscana. L’Italia di cent’anni fa presenta un’aristocrazia ancora legata a sani principi quali lo studio e il risparmio, una borghesia mercantile ormai aggredita dal bacillo dell’opportunismo, dell’attendismo, e d’un cinismo che attecchisce anche in menti giovani, giovanissime, specie a Roma, in Toscana, in Lombardia, in Piemonte.
L’Italia del 1914 è un Paese in cui si crepa di fame… Si crepa ancora di pellagra, di tifo, febbri reumatiche, gastroenterite, malaria, meningite, denutrizione. Si muore di stenti o di patologie causate dalla sotto-alimentazione e dal sudiciume delle stamberghe nelle quali si vive o si tenta di sopravvivere, non solo a Napoli o in remoti borghi del Mezzogiorno; ma “anche” in Veneto, in Lombardia, in Toscana. E a Roma. San Pietro affoga fra casupole, catapecchie lerce, con poca luce, poca aria e perciò malsane, come vi affogano il Campidoglio, il Tempio di Vesta, Santa Maria in Cosmedin.
L’Italia del 1914 è una nazione che non ha trovato ancora se stessa: non può essere bastata la vittoria nel confronto in Tripolitania con la Turchia. L’Italia è un Paese su cui Dogali e Adua bruciano ancora. E’ una nazione senza una vera guida. Anzi, i ricorrenti giochi giolittiani ne indeboliscono una fibra che tanto robusta non era mai stata, anche per via del “sacco” savoiardo di cui era rimasto vittima il Meridione subito dopo l’anno dell’Unità, il 1861. Giolitti va a braccetto con lo schieramento politico che, di volta in volta, più gli conviene. Per bassi calcoli elettorali, nel 1911 decide di muovere guerra alla Turchia, in Tripolitania e godere quindi, in Parlamento, del sostegno dei nazionalisti. Avrà “degni” successori…
L’Italia è paralizzata dalla contrapposizione fra socialisti e reazionari, fra lavoratori e padroni: nessuno dei due schieramenti è tanto forte da poter piegare definitivamente l’altro. I reazionari s’impongono col ricatto, col ricatto salariale… Si fa presto a ridurre a miti consigli un disgraziato che ha da sfamare diverse bocche. Non mancano, tuttavia, le spettacolari dimostrazioni di piazza socialiste, ma la situazione non si sblocca; anzi, più avanti ancora verrà aggravata dalla comparsa d’un partito guidato da un prete, pensate, da un prete… E’ il Partito Popolare fondato e guidato da don Luigi Sturzo.
I socialisti si dividono poi fra massimalisti e riformisti, e qui la contesa è verbosa, ampollosa, estenuante, perfino violenta nelle sezioni, nelle federazioni, nei circoli. E’ accademica… Cede, inoltre, ai regionalismi; s’abbandona a distinzioni di provenienza geografica e ‘linguistica’. Fa quindi il gioco dei padroni, i quali non sono mica tutti illuminati come il Giovan Battista Pirelli o il Camillo Olivetti.
Tutto questo a vantaggio del “dittatore del Parlamento”, Giovanni Giolitti, appunto. Il quale, ancora fra il 1921 e il 1922 s’illuderà di poter giocare un agitatore romagnolo, uno nato socialista massimalista, direttore prima di “Lotta di Classe”, quindi de l’”Avanti!”: si chiama Benito Mussolini…
Ci vuole uno strappo. Ci vuole “lo” strappo. Se vuole progredire, l’Italia allora deve bruciare i ponti alle sue spalle: guardare solo avanti, diventare anch’essa protagonista della guerra che si sta combattendo dalle Fiandre ai Laghi Masuri. Solo con un grande sacrificio, dicono Mussolini e i suoi interventisti, il popolo italiano potrà quindi strappare ai padroni quel che ai padroni dev’essere strappato.
L’Interventismo. E’ su questo terreno che si consuma la separazione fra Mussolini e il Partito Socialista. Nell’autunno del 1914 Mussolini viene espulso dal PSI appunto perché interventista: il 15 novembre di quell’anno esce il primo numero del giornale da lui fondato e diretto, “Il Popolo d’Italia – organo ufficiale del Partito Socialista Interventista”.
L’Interventismo in Italia è assai diffuso. E’ un fenomeno inter-classista, anche se il suo nerbo è rappresentato dall’aristocrazia, dalla borghesia delle arti e professioni, e dalla categoria degli operai specializzati e degli artigiani. L’Interventismo dilaga soprattutto nelle città: Napoli, Palermo, Cagliari, Firenze, Milano, Brescia, Mantova, Padova, Verona, Rovigo, altre ancora. Tiepido, invece, a Roma… A Roma gli interventisti che vanno alla caccia dei “caporioni” del neutralismo, sono studenti universitari sardi, siciliani, calabresi, emiliani, veneti. Roma è “grassa”, Roma è “indolente”. Roma non vuol che “godere”… Il resto non le interessa…
Il 1914. L’autunno del 1914. Nei cinema italiani, dalla Sicilia alla Lombardia, “tira” ancora benissimo il celebre “Cabiria”, costato 1 milione di lire-oro quando la produzione di altre pellicole non supera il costo di 50mila lire: prodotto dalla Itala Film, diretto da Giovanni Pastrone, con la conturbante Lidia Quaranta nel ruolo appunto di Cabiria, la fanciulla romana che finirà schiava dei Cartaginesi e qui la vicenda si fa di un complicato assoluto… E’ comunque il primo Kolossal della Storia del Cinematografo, che all’americano Griffith dette la molla per il suo “Birth of a Nation”, dell’anno dopo.
E’ l’epoca della Francesca Bertini, attrice magistrale, soprattutto nel film muto “Assunta Spina”; della Lyda Borelli, altra “diva” italiana; della Lina Cavalieri, soprano e anch’essa attrice di Cinema e Teatro. E’ l’epoca in cui il Calcio nostrano comincia a farsi le ossa, in cui Ciclismo e Scherma italiani collezionano vittorie. Ma la società italiana non acquisisce il brio, la velocità invocati tuttora dal Futurismo, che esprime belle menti sia nella letteratura che nelle arti figurative.
Nel giornalismo spopolano Arnaldo Fraccaroli e Luigi Barzini Jr; veneto il primo, umbro il secondo. Entrambi inviati speciali al servizio del Corriere della Sera, seguono guerre, rivolte, sommosse, elezioni politiche, i grandi avvenimenti, insomma. Il loro stile non è ottocentesco: è già novecentesco! Niente ridondanze, quindi, niente orpelli, nessuna edulcorazione. L’uno è più famoso dell’altro: Barzini diventa addirittura una celebrità internazionale quando, nel 1907, siede accanto al posto di guida del principe Scipione Borghese nel sensazionale raid automobilistico Pechino-Parigi su cui firmerà splendidi resoconti.
Il 1914 nelle grandi città fa registrare un innalzamento del tenore di vita, sebbene esso riguardi soltanto i bancari, gli impiegati e dirigenti di compagnie marittime, gli operai specializzati della FIAT, della Breda, della Pirelli e dell’Olivetti. E’ già qualcosa, ma non abbastanza in rapporto all’intelligenza degli italiani, al senso creativo degli italiani, alla voglia di lavorare degli italiani. Tanto che l’emigrazione continua, continua triste, grigia, verso Stati Uniti, Brasile, Argentina. Ma dovrà pur esserci la maniera per fermare quest’esodo che umilia l’intera nazione.
A ogni modo l’”italiano qualsiasi” che gode di un discreto salario, che può quindi permettersi il ristorante una, due volte alla settimana; il cinema la domenica, il postribolo d’un “certo livello” con ancora più frequenza; ecco, quest’”italiano”, magari scapolo, guerre non ne vuole: non ne vuole per sé, non ne vuole per i fratelli minori; altro non desidera che lavorare in base alle proprie capacità e “godersi la vita” a più non posso: al resto ci pensi lo Stato, in prima linea ci vadano gli altri, i tedeschi, gli inglesi, i francesi; siano loro a farsi scannare, noi non c’entriamo, il discorso si chiude qui. Che poi l’Italia debba svenarsi perché costretta a comprare da altri Paesi le materie prime di cui è sprovvisto il suo sottosuolo, ebbene, nemmeno questo gli importa. Lui vuole “la pace”! Non sa, non capisce, che una cattiva pace provoca danni assai più gravi d’una guerra.
Eccolo, quindi, l’italiano “eunuco” di cent’anni fa… E’ l’italiano che non ha una ben precisa opinione, è l’italiano che non si espone, chiuso in un provincialismo gretto, amante delle infarinature: infarinatura in Storia, infarinatura nelle Scienze, nella Meccanica, nel Francese. Nelle infarinature si sente un “colto”, un “erudito”: giudica chi non conosce… Giudica con disinvoltura sconcertante inglesi e francesi, tedeschi e russi; legge poco, ma vorrebbe far credere di leggere assai e d’interessarsi alle novità del Pensiero: in realtà è incapace di spiegare un fenomeno, anzi, “il” fenomeno, artistico dei suoi tempi: il Futurismo.
E’ l’egocentrico che di sé ha una gran concezione, la sua autostima è enorme, grottesca, quindi. E’ l’italiano per il quale la donna è “buona soltanto a letto”, per il quale sulla ‘femmina’ il ‘maschio’ ha solo diritti e nessun dovere. Sul piano della Religione, rientra in due categorie: in quella del clericale, del baciapile; in quella di chi finge di ‘credere’ e la domenica va alla messa perché non andarci sarebbe “disdicevole”.
Siede in consigli municipali, è membro di giunte comunali, nella pubblica amministrazione non ha certo raggiunto alti vertici, occupa tuttavia posizioni di rilievo, è uno che ha un peso, uno che trova ascolto, riceve credito: non conviene farselo nemico… Con il tipo da lui rappresentato, non avremmo avuto nessun futuro. Avremmo continuato a morire di pellagra, di febbri reumatiche, setticemia, gastroenterite, difterite, tifo. Rachitismo e tisi non sarebbero stati combattuti con efficacia. L’Italia avrebbe forse fatto una brutta fine davvero, ricomprata pezzo per pezzo da francesi… Belgi… Tedeschi… Inglesi… Sarebbero arrivati anche gli americani. E’ verosimile.