La VOCE di New York ha ripubblicato il celebre articolo di Pier Paolo Pasolini che, come le encicliche, è noto a partire dalle sue prime parole: l’articolo del “Io so”. E, come un’enciclica, essendo diretto da un’autorità spirituale ad un popolo reverente, essendo ricca di contenuti rilevanti per la pratica e per la dottrina, va letta fino in fondo.
Pasolini scrive questo articolo sul Corriere della Sera (il primo di sei, fino all’Agosto dell’anno successivo) quando era ampiamente maturata (discussa, contestata, ricevuta e, perciò, maturata) la sua autorità morale. E in un preciso momento storico: alla vigilia dell’apogeo comunista in Italia. E’ agevole immaginare che la parola “autorità” gli sarebbe dispiaciuta, ma l’avrebbe capita. L’intellettuale “non funzionario”, come egli si proponeva di essere, deve alla propria libertà morale il proprio potere e la propria credibilità: potere e credibilità fondano l’autorità, che non è una brutta parola. Anzi.
Dunque “Io so”. Pasolini, che sapeva tradurre dal greco antico al friulano, che sceneggiava i vangeli e che cercava periferie, fissa innanzitutto una parola: golpe. Che è una parola straniera, diciamo non familiare come non lo è il greco antico, e si preoccupa di conferirgli familiarità, prontezza di senso. Ma non lo fa con un’interpretazione, cioè con un atto filologico: lo fa sceneggiando un atto di accusa. Pone in scena, quindi drammatizza, un senso che ritiene riposto. E così, impercettibilmente, ma consapevolmente, conduce il lettore ad acquisire, come presupposto, ciò che dovrebbe invece essere spiegato. Il lettore ora, dopo poche righe, già presuppone un segreto, un ambito di significati nascosti che, però, è destinato a rimanere tale, inespugnabile. Ed è contro tale tetragona impenetrabilità che Pasolini rivolge le sue energie, fondando un mistero mentre lo evoca. Lo annuncia, lo “evangelizza”. Cioè, lo pone fuori della Storia, lo sottrae al suo dominio, e ne fa un attributo del suo personale e inesplicato potere evocativo. Che rivendica come l’unico potere dell’intellettuale libero.
Gli era indispensabile uscire dalla Storia. Perché se avesse accettato di agire su questo piano, avrebbe trovato tutte le risposte che affermava di cercare. Essendo arrivato al generale Vito Miceli che, negli anni a cui Pasolini si riferiva, era stato il capo del Servizio Segreto civile, era arrivato pure a chi l’aveva nominato e voluto nella carica (Aldo Moro). Ma a Pasolini questo non interessava. Gli interessava occupare il margine della Pòlis, anche a costo di non “partecipare del diritto ad avere, con una certa probabilità, prove ed indizi”. Vuole rimanere ignorante, perché la conoscenza l’avrebbe contaminato, perché la conoscenza è impura. Nelle sue parole: “è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio coraggio intellettuale a dire la verità”.
Questo accade perché, in Italia, la verità politica, cioè la verità che viene dalla Pòlis, è altra dalla verità dell’intellettuale, di chi puramente cerca la conoscenza. La verità storica è altra da quella racchiusa nel mistero evocato.
Sul Piano della Storia sapeva che c’era la CIA quanto il KGB. Il Mossad come la Stasi, Parigi come Londra. E che se non sulla varietà dei possibili colpevoli, certo tale congerie incideva sulle ragioni storiche, quindi politiche, e, perciò veritative, delle stragi. Scegliendo il piano metastorico si può invece distillare la libertà di pensiero, che di suo sarebbe costretta a muoversi entro i limiti del reale, dell’esperienza: e farne una categoria fuori della Pòlis, ascetica. La Potenza, il Primo Motore, il Pensiero, ha sempre bisogno dell’Atto, di quello che già c’è, avrebbe sommessamente suggerito Aristotele. Sul piano del mistero, sul piano metastorico, dunque, Pasolini poteva isolare il Male dal Bene, con le maiuscole. Poteva immaginare due Italie, una clerico-fascista, sporca, disonesta, idiota, ignorante, consumista, quanto l’altra era pulita, onesta, intelligente, colta, umanistica.
Astrarre, dunque, distanziarsi, preservarsi dal flusso delle cose: dalla vita. Così anche il compromesso (che, non a caso, era stato definito “storico” dai suoi proponenti), pur essendo simile più ad una “alleanza fra stati confinanti” che ad un accordo fra pari, in realtà (cioè nella irrealtà pasoliniana) non sarebbe stato possibile. E’ la politica, tutta intera, che viene sfiduciata da Pasolini A meno che “un uomo politico”, metonimicamente, non riscatti l’intero facendo i nomi.
Si può dubitare delle parole scritte in questo famoso articolo. Del loro valore. Perché si può dubitare che l’Aventino sia meglio di Montecitorio. Per la semplice ragione che sono parole che giudicano la Storia deliberatamente ripudiandone il corpo, la materia. La Storia aveva già conosciuto la “collettivizzazione” dell’agricoltura, vale a dire il genocidio ucraino per fame; “il ‘37”, che nel mondo comunista, significò i processi politici a milioni, i deportati, i condannati a “dieci anni di reclusione senza diritto di corrispondenza”, cioè a morte senza nemmeno farlo sapere ai familiari; Budapest; Praga. E la Storia aveva conosciuto scelte e adesioni italiane a tutto questo, talvolta fingendone, politicamente e intellettualmente l’ignoranza, talaltra vivendone, tragicamente, l’esperienza.
Un intellettuale avrebbe potuto descrivere proprio la dimensione tragica di quella Storia, spiegare (come, di fatto, spiegarono i dirigenti politici comunisti, che “non facevano nomi”, “minori responsabili”, ma pur sempre responsabili, secondo Pasolini) che la verità della politica è nobile, è alta, è degna, perché è fatta con lo stesso impasto degli uomini. Perché è impura. E pure un po’ bugiarda.