In più di 300.000 sono scesi in strada domenica mattina a New York per far sapere ai governanti che si riuniranno martedì all’ONU che la società civile è pronta al cambiamento necessario per combattere i cambiamenti climatici. A portare la propria bandiera e le proprie ragioni alla People’s Climate March c’erano centinaia di gruppi ambientalisti, università, istituzioni, delegazioni di popolazioni indigene, compagnie di energia rinnovabile, artisti, famiglie, bambini. E non mancavano autorità e celebrità tra cui il sindaco de Blasio, l’ex vice presidente Al Gore, il segretario generale ONU, Ban Ki-moon, Robert F. Kennedy Jr., Leonardo Di Caprio, Edward Norton, Sting. Il cordone di folla che si estendeva per due miglia da 80th street fino a Times Square per poi andare a concludersi nella zona ovest di Manhattan, era pieno di colori, musica e creatività. Una manifestazione ordinata e pacifica che non ha visto momenti di tensione. Nell’aria c’era sentore di speranza, ottimismo e voglia di fare, più che rabbia e disillusione. Il messaggio è soprattutto uno: siamo pronti. E la marcia è stata un momento per unire le forze, per dimostrare che le risorse, le idee, le soluzioni sono già disponibili, e spesso vengono dal basso.
Prima della marcia, domenica mattina, de Blasio aveva annunciato un programma di azioni concrete che la città di New York ha intenzione di intraprendere per la riduzione delle emissioni, con l’obiettivo di tagliare i gas serra dell’80 per cento entro il 2050. Obiettivi ambiziosi che farebbero della Grande Mela l’avanguardia in materia di sostenibilità urbana. L’amministrazione sembra decisa a seguire le indicazioni di una comunità, quella newyorchese, che ha già deciso da che parte stare nella lotta ai cambiamenti climatici. A dirlo sono le migliaia di voci di tutti i colori che si sono alzate durante la marcia.

Ban Ki-moon durante la marcia. UN Photo: Mark Garten
Al fianco di de Blasio ha sfilato il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, che, parlando ai giornalisti a conclusione della marcia, ha detto che il mondo ha bisogno di “galvanizzare la nostra azione” e fare buon uso del potere di cambiamento della gente. Non c’è, ha detto ancora Ban Ki-moon, un “piano B” in quanto non c’è un “pianeta B”. Il segretario ha inoltre espresso la speranza che quello che la gente ha urlato in strada si rifletta nelle azioni dei leader quando si incontreranno all’ONU martedì. “Il cambiamento climatico è una questione determinante del nostro tempo – ha aggiunto – Non c’è tempo da perdere. Se non si interviene ora pagheremo di più dopo”.
Arrivato dall’India, Ravneet Pal partecipa alla marcia per il clima con la sua associazione EcoSikh, che riunisce la comunità Sikh intorno ai problemi ambientali e al tema della sostenibilità. Quando gli chiedo cosa pensa del fatto che il suo paese non manderà i suoi massimi leader al vertice dell’ONU mi guarda sorpreso: “Davvero? Questo è molto male. Dobbiamo fare attenzione a dove stiamo andando. La madre Terra è già in pericolo. L’India è un paese che ha sofferto molto nel corso dello scorso secolo. E ora quando vediamo altri paesi poveri, dobbiamo unirci a loro e unire le forze e lavorare per delle politiche che siano in grado anche di cambiare le nostre tradizioni per migliorare le condizioni sanitarie, per salvare i nostri mari, il nostro cibo e la nostra terra. Noi siamo qui con la comunità sikh per fare la nostra parte e rappresentare il nostro paese. In India dobbiamo migliorare il sistema politico. Nelle ultime elezioni abbiamo combattuto molto per le persone giuste ma le cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto”.
Alison Yager è di Brooklyn e marcia con un cartello della Moms Clean Air Force: “Voglio che i miei figli vivano in un pianeta stabile e sicuro che resti sicuro per i loro figli, nipoti e pronipoti. Non siamo sulla strada giusta: c’è molto lavoro da fare. Ma ho fiducia nella forza delle persone, nella loro capacità di fare pressioni sui politici finché il cambiamento non avverrà”.
Gli attivisti di CultureStrike, un’associazione che coniuga arte e attivismo, portano in marcia sagome di cartone: “Ritraggono — mi spiega Cynthia Carvajal, di origine messicana e arrivata da Los Angeles — dei membri della comunità del Bronx e di Newark, che sono migranti o vengono da un passato di migrazione e che oggi contribuiscono alla cura di community garden dove si coltivano prodotti biologici che consentono alle comunità locali di essere autosufficienti e di averla vinta sulle corporation. Queste sono iniziative che la gente sta portando avanti in tutto il Paese. Parte della soluzione può essere locale. Se iniziamo dal basso verso l’alto possiamo aiutarci a vicenda. Ma poi ci si scontra con le multinazionali che impediscono lo sviluppo delle comunità. Quindi ci deve essere anche un livello nazionale e globale ma sono le comunità locali quelle che hanno la forza e la capacità di supportarsi a vicenda”.
Costa Constantinides, chair del Sub-Commitee on Libraries del 22° distretto, sfila con i colleghi dietro lo striscione del City Council di New York: “Siamo qui perchè dobbiamo essere coraggiosi. I nostri leader nazionali devono essere coraggiosi e al momento il consiglio municipale si sta dimostrando audace con l’introduzione di un pacchetto di azioni per una riduzione delle emissioni dell’80 per cento entro il 2050. Queste iniziative apriranno anche a una serie di opzioni per migliorare le condizioni sanitarie dei newyorchesi, aumentare i posti di lavoro nell’industria verde e, soprattutto, salvare il pianeta. La città di New York è sulla strada giusta e stiamo lavorando sodo. Questa mattina de Blasio ha fatto un discorso molto coraggioso proprio su questi temi: riduzione delle emissioni, investimenti nei green job e nelle energie rinnovabili. Questa è la direzione in cui dovrebbe andare l’intero paese e stiamo mostrando la strada proprio qui da New York, come è giusto che sia: New York è leader”.
Una nota di pessimismo viene invece da Eric che sfila con un cartello che invita a imparare a nuotare. “Questa sarà la fine che faremo se non ci diamo una mossa. Beh, forse non avverrà nel mio arco di vita di vedere la gente sommersa dall’acqua, ma prima o poi succederà: conviene iniziare a pensarci”.
Alison, originaria delle Barbados, vive a New York e marcia con la National Domestic Workers Alliance: “La questione delle collaboratrici domestiche è legata alla questione climatica perché molti collaboratori domestici fanno lavori di pulizia in tante case in cui usano prodotti che non sono sicuri e non fanno bene né all’ambiente né alla nostra salute. Come collaboratrici domestiche abbiamo scelto di marciare oggi per far sapere al mondo che abbiamo bisogno di prodotti più puliti per tenerci questa terra ancora a lungo”.
Al fianco di un carro che trasporta una riproduzione di alcuni edifici di New York su cui svetta un’insegna luminosa alimentata da una bicicletta, marcia Ivan Cruise, operaio newyorchese: “Rappresentiamo la classe operaia di New York. In città ci sono così tanti edifici che potrebbero essere riconvertiti con criteri di edilizia sostenibile: ed è lì che entriamo in campo noi. Si potrebbero creare molti posti di lavoro. Inoltre dovremmo iniziare a pensare a modi nuovi per impiegare materiali più sicuri sia per i lavoratori che per l’ambiente stesso”.
Theresa Turner è arrivata da Toronto per la People’s Climate March e porta un cartello che parla di ecofemminismo: “Il capitalismo fa profitti sul lavoro (pagato e non) di tante donne. Se venisse a mancare quel lavoro il capitalismo collasserebbe. Le questioni di genere e di classe sono profondamente connesse alle questioni climatiche. Perché con la concentrazione del benessere nelle mani delle dieci più grandi compagnie petrolifere che sono coinvolte anche nel sistema bancario ampie fasce della popolazione si impoveriscono. Il risultato è che noi siamo sempre più poveri, stiamo distruggendo la natura e abbiamo pressioni per leggi assurde come quelle antiaborto, il tutto solo per servire il capitalismo”.
Terran Giacomini, ricercatrice dell’Università di Toronto, canadese con origini italiane, indossa un cartello che, con una scritta glitterata, chiede la fine del capitalismo. “Lavoro nel campo dell’agricoltura e in particolare con le sementi e credo che l’ONU stia proponendo una serie di false soluzioni come gli OGM e quella che loro chiamano ‘climate smart agriculture’ che sarebbero quelle coltivazioni che si adattano o tollerano certe condizioni ambientali. Le soluzioni proposte sono tutte a livello di tecnologie e non prendono in considerazione il fattore delle relazioni sociali. Il vero problema è l’agricoltura capitalistica, ma le popolazioni locali hanno già la soluzione ai cambiamenti climatici: l’agricology è un’agricoltura biologica su piccola scala che è in grado di produrre più cibo per più persone reali e non per farne biocarburanti. È possibile anche a livello globale: ci sono molte ricerche anche a livello universitario che dicono che non solo è fattibile ma necessario, anche per la conservazione della biodiversità che diventa sempre più importante. Il problema dei cambiamenti climatici ha a che fare con queste e altre questioni come il razzismo, il sessismo, la disoccupazione, la povertà. Non è solo questione di clima”.
Nativa americana, Sesir Herna sfila in abiti tradizionali e sventolando la bandiera dei territori Ahkwesásne della tribù Mohawk: “Sono qui per proteggere la madre Terra, le nostre piante indigene e i nostri valori tradizionali e per impedire ai governi di tradire sempre tutti. Siamo tutti connessi. Le popolazioni indigene di tutto il mondo attraversano i confini in un sentimento comune di rispetto della madre Terra: noi siamo le popolazioni originarie e ci siamo sempre presi cura della terra”.
Strabers, che lavora per City Bike e viene dal New Jersey, si porta in giro una tenda, a rappresentare l’emergenza di popolazioni che, causa innalzamento dei livelli del mare, saranno costrette a dislocarsi: “Esiste una connessione tra le tematiche ambientali e la capitale mondiale del real estate. Dopo Sandy si è evidenziata una politica che non consente uno sviluppo immobiliare a prezzi abbordabili sulla linea di costa e quindi si crea una separazione tra le popolazioni ancora più drammatica. I processi di mediazione necessari per lo sviluppo di nuovi progetti imobiliari sono talmente complicati che non consentono l’accesso a progetti più abbordabili, ma finiscono sempre ad essere appannaggio di grandi compagnie che preferiscono ricostruire daccapo piuttosto che avviare processi più graduali, partecipati e fluidi rispetto alla composizione demografica delle comunità”.
Ha addosso una maglia su cui campeggia la scritta “Io sono la soluzione”, Drew Curtis. Gli chiedo cosa intende: “Quando si cercano soluzioni per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici e adattarsi ad essi, al tavolo delle trattative devono esserci tutti. E intendo tutti: non solo gli interessi corporativi che si incontreranno alle Nazioni Unite ma anche le comunità che sono in prima linea sui cambiamenti climatici e che ne vedono gli effetti ogni giorno. Abbiamo avuto l’uragano Sandy due anni fa e le centinaia di miglia di persone, prevalentemente appartenenti a fasce a basso reddito, non hanno ricevuto l’aiuto di cui avevano bisogno ma sono state quelle più colpite”.
Paul marcia con un cartello che dice che fracking è morte. Quando gli chiedo cosa pensa del fatto che gli Stati Uniti considerano il gas di scisto estratto attraverso il fracking parte della soluzione, ride: “Non è parte della soluzione: è parte della distruzione. Ci sono così tanti modi per produrre energia oggi giorno e questo chiaramente non è il modo giusto. Non puoi sacrificare l’acqua che bevi e l’aria che respiri per estrarre gas o petrolio. Abbiamo abbastanza sole e vento per produrre energia per anni e anni. Ma le multinazionali non lo permettono”. Quando gli chiedo se viene da un’area che è colpita dal problema del fracking ride ancora: “Tutti ne siamo colpiti”.
Andrew Boyd è un artista e, insieme ad altri creativi, ha dato vita al progetto Climate Ribbon. Alle persone viene chiesto di scrivere su di un nastro di stoffa quello che non vorrebbero perdere per via dei cambiamenti climatici e di legare il nastro al fianco di quelli di tutte le altre persone che, in una sorta di rituale collettivo, hanno condiviso le proprie paure e le proprie speranze. “Abbiamo creato questo progetto per dare voce a quello che c’è nel cuore delle persone mentre viviamo un momento drammatico in cui ci stiamo avvicinando alla catastrofe climatica. Non è semplice fare i conti con questi sentimenti e aprirci con onestà alla situazione in cui siamo, a quello che stiamo facendo a questo pianeta e alle conseguenze che vedremo nel giro di pochi decenni. Per questo abbiamo creato un piccolo gesto artistico, come un rituale partecipativo con il quale invitiamo le persone a riflettere su quello che è in gioco per loro personalmente, a mettere a nudo la loro vulnerabilità, ad addentrarsi nelle proprie paure e connettersi con se stessi e con la verità. Noi chiediamo alle persone di rispondere a una domanda semplice che però non ci poniamo abbastanza spesso: cosa ami e non vorresti perdere? Si tratta di una domanda molto personale e la risposta deve venire dopo qualche secondo di contemplazione”.
Il corteo si conclude su 11th Avenue tra musica, danze e discorsi. La folla si disperde ma le idee restano. Molte delle persone che hanno preso parte a questa storica marcia hanno già iniziato ad attuare le proprie soluzioni ai cambiamenti climatici. Ora aspettano solo che i leader della Terra facciano altrettanto.