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June 19, 2014
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Delitti italiani: l’impossibile orizzonte cognitivo dell’omicidio di Motta Visconti

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
La villetta della provincia di Milano in cui è avvenuto il delitto

La villetta della provincia di Milano in cui è avvenuto il delitto

Time: 4 mins read

 

In Italia in questi giorni è accaduto un fatto tragico, di una crudeltà inaudita. Un padre, a Motta Visconti (Mi), ha ucciso, con un coltello, la moglie e i due figli, la più grande di cinque anni, il più piccolo di soli venti mesi. Successivamente, a quanto dicono gli inquirenti, sarebbe andato a vedersi tranquillamente la partita della nazionale italiana di calcio, che si giocava alla mezzanotte.

È uno di quei fatti che appena ne vieni a conoscenza rimani con il fiato sospeso, le gambe diventano molli e non sai più cosa dire. È uno di quei fatti per i quali vorresti cercare una spiegazione, cercare di capire, ma sai già che non ci riuscirai mai. È uno di quei fatti che ti fanno chiedere come potranno mai sentirsi i parenti delle vittime o dell’assassino o anche coloro che per primi accorrono sulla scena del delitto, carabinieri o poliziotti, soprattutto se padri di famiglia. Riusciranno a essere distaccati e freddi nel loro lavoro? Quali i sentimenti quando torneranno a casa dalla loro famiglia? È uno di quei fatti che ti sbatte in faccia la crudeltà umana, perché non si tratta di una guerra, di una violenza che nasce in situazioni di crimine organizzato, né tantomeno in zone dove si ammazza per sopravvivere. È uno di quei fatti, come altri accaduti in Italia – vedi i delitti di Cogne, di Novi Ligure, di Garlasco, di Erba o Perugia, per citare i più mediatizzati – che si svolgono quasi sempre in una villettina della piccola classe borghese di periferia. Famiglie, nella maggior parte dei casi, come i vicini e gli opinionisti descrivono, normali, che nulla lasciano trasparire della possibilità che tra loro ci possano essere assassini e vittime. 

Nel corso del tempo ci siamo abituati a pensare che ci sia una normalità e che sia di tutti, perché abbiamo espropriato dalla nostra vita quella parte di crudeltà che è presente in molti esseri umani. L’abbiamo nascosta nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei manicomi, in modo da rendere la vita di fronte a noi più bella. A meno che non si tratti di spettacolo, di visioni che confermano la loro eccezionalità: come la sparatoria per strada, l’incidente di macchine, la rissa in un locale, l’aereo che atterra senza carrello, i terroristi che si fanno esplodere. 

Tolstoi scriveva, all’inizio di Anna Karenina, che ogni famiglia è felice allo stesso modo ma è infelice a modo suo. Quanta verità in quell’idea diffusa di normalità felice, obiettivo riconosciuto, situazione condivisa perché così è insegnato che sia giusto: avere un lavoro, meglio se ben pagato, soprattutto per gli uomini, sposarsi e mettere su famiglia soprattutto per le donne. Questo è il minimo per la felicità socialmente riconosciuta. Ma l’infelicità ognuno la vive diversamente. Ed è per questo che è difficile da comprendere, darle un senso.

Si sprecano in questi giorni le opinioni di psicologi, sociologici, criminologi, di gente comune che affolla i forum o mostra il loro sdegno nelle discussioni che normalmente seguono ad un evento di tale portata emotiva. Una possibile spiegazione è quella data da un autorevole psichiatra Vincenzo Mastronardi, che ritiene il gesto di quell’uomo conseguenza di una vita, quella di marito e padre, da eliminare del tutto, per rinascere ad una nuova e tornare “a giocare da solo”, causa anche di un’infatuazione per un’altra donna. Ma tutto questo non ci permette di entrare, se non in piccola parte, in quell’infelicità. In quel complesso meccanismo familiare che deve mostrarsi felice, altrimenti pena, soprattutto nella periferia dove le voci corrono e gli sguardi controllano, il giudizio sociale di inadeguati, di incapaci di soddisfare le più “normali” aspettative diffuse dell’“altro”. In altre parole, le mura familiari nascondono ancora oggi, quando tanti sostengono che privato e pubblico si confondono, una condizione mal conosciuta. 

A mio avviso ci si dovrebbe occupare, oltre che delle donne e dei bambini, prime vittime di queste pazzesche stragi, anche degli uomini, attraverso un sistema di aiuto psicologico, ad esempio, per coloro che si accorgono che potrebbero spingersi oltre nell’aggressività, come d’altra parte fanno in alcuni paesi del Nord Europa. Per quelli che forse si fermerebbero un momento prima se sapessero che esiste qualcuno in grado di aiutarli, e sono certo che molti lo farebbero. 

Chi ha commesso tali delitti è ai nostri occhi un mostro, al quale non è possibile dare una pena in grado di controbilanciare il male fatto, perché una pena così grande non esiste. Non certo la pena di morte, come molti semplicisticamente e barbaramente hanno gridato, confondendo i sentimenti personali, magari di vendetta, con la giustizia ed il suo corso, seppur criticabile nelle norme e nelle procedure. Uno stato di diritto non uccide, non si pone allo stesso livello dell’assassino. Forse il tormento di ogni giorno, per un gesto dal quale non si torna indietro e che si sconterà ogni secondo della propria vita che resta da vivere. Quella, la vera prigione. Premesso questo, ci troviamo nell’impossibilità di definire umanamente ciò che appare esclusivamente disumano o oltre umano. Non siamo in grado di spostare l’orizzonte cognitivo così lontano, forse anche perché non ne abbiamo chiaramente uno in comune. Ognuno sembra avere il proprio, simbolo della propria potenza, nella presunzione di prenderlo e metterlo ovunque si desideri, anche a costo di lasciare dei morti dietro le proprie spalle. 

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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