Quando Federico Aldovrandi morì, durante il controllo di polizia a cui era stato sottoposto, aveva 18 anni. Una morte così violenta e precoce, così equivoca e sorprendente, sempre rilascia sedimenti di smarrimento e di sdegno irriducibili. Quattro contro uno? Per un atteggiamento strafottente e provocatorio, lo pestate a sangue? A finirlo? Domande spontanee, legittime, lacerate di una lacerazione infinita se, per di più, provengono da un madre. Solo che, quando provengono da una madre, non sono destinate ad una risposta: ogni risposta possibile se ne è andata col figlio. Quando, invece, le domande sono poste fuori di quell’oppressione infinita, che tutta si chiude ad ogni incursione razionale, che vieta ogni prospettiva che non sia quella del cuore raggelato, del tutto che diventa niente, allora le domande impongono tentativi di risposta, non riescono a liberarsi dell’occhiuta e tenace razionalità, evocano altre prospettive.
Perché la Polizia di Stato che uccide un uomo disarmato e sottoposto alla sua formale potestà è un assoluto: un assoluto negativo. Ma non è un assoluto accidentale. E’ l’assoluto in cui consiste il potere legittimo, cioè ammesso da una norma giuridica, di esercitare violenza e, se non bastasse, in termini monopolistici. Il monopolio legittimo della violenza è l’assoluto negativo su cui si fonda la forza materiale dello stato; e la forza dello stato è lo specifico basamento del suo diritto, la sua forza morale. In genere si obietta, ovviamente, che casi come quello di Federico Aldovrandi, al contrario, non solo non esemplificano il fondamento dello stato, ma lo negano. Perché fanno malgoverno di quel monopolio della violenza che, certo esiste, ma non è assoluto. Il monopolio della violenza è limitato, non è assoluto, si prosegue, ed è limitato dal diritto; cioè, esattamente da un criterio, meglio: da un insieme di criteri, che vale a distinguere la violenza esercitata assolutamente, dunque, la condizione della barbarie, dalla violenza esercitata entro limiti, dunque la condizione della civiltà.
Su queste obiezioni la nostra coscienza si acquieta soddisfatta. Il diritto e la sua capacità violenta, la forza morale dello stato e il suo sostrato materiale, vengono elevate ad una soglia trascendente, di compiuta ed incorruttibile perfezione, se ne fa un volto di Dio, e i singoli usi impropri, o abusi, vengono riferiti alle imperfezioni dei singoli: modulo adamitico, diciamo. Questo modulo sarebbe accettabile se poi, il diritto, invocato a discernere la violenza assoluta, barbara, dalla violenza relativa, civile, spendesse parole chiare. Ma non accade. Perchè il diritto non esiste in sé: esistono i giudici. Quando si sostiene, secondo il dogma illuministico, che il giudice è “la bocca della legge” si mente per la gola, e la menzogna serve unicamente a rendere irresponsabili questi aruspici del terzo millennio. Se sono “la bocca” e non “il diritto”, eventuali opacità, eventuali reticenze, eventuali tentennamenti, per esempio, sulla distinzione della violenza civile da quella barbara, sono opera maligna del “diritto”, entità a sé stante, e non opera loro, che sono solo “bocca”.
Ma se il diritto può sbagliare, e non è più trascendente, le singole colpe non possono più farsi ricadere solo suoi singoli, cioè sulla Polizia, ma sono anche colpe proprie del diritto, ed essendo i giudici sua “bocca”, essi, dando voce ad un errore, parteciperebbero, sarebbero cioè parte, di una natura imperfetta. Naturalmente, le cose stanno proprio così. Infatti, il diritto senza i giudici, in realtà, non esiste. Perciò, rimane da capire se, riportato il diritto sulla terra, dal cielo dove lo si voleva irresponsabilmente e comodamente confinare, siano due i responsabili della violenza assoluta; nella stessa misura o uno più di un altro e, in questo caso, chi più e chi meno, fra giudici e polizia.
La violenza esercitata dalla polizia è assoluta, cioè non limitata, quindi barbara. Una persona di diciotto anni è morta malamente. Il pubblico ministero, cioè un magistrato, non contesta l’omicidio volontario, ipotizzando il “dolo eventuale” (semplificando: la condizione psicologica di chi, agendo, conosce, cioè intende, il rischio che si produca la morte, e ciònonostante, agisce lo stesso) ma l’omicidio colposo (cioè la morte quale effetto involontario di un’azione diretta ad altro scopo ma che, maldestramente eseguita, purtroppo produce quel risultato); né contesta l’omicidio preterintenzionale (cioè la morte non voluta, che però consegue a lesioni o percosse che si infliggono volontariamente). Il giudice, che è un altro magistrato (in Italia collega del primo), conferma la scelta.
E’ diritto la norma che prevede l’omicidio volontario; è diritto la norma che prevede l’omicidio preterintenzionale; è diritto la norma che prevede l’omicidio colposo. La “bocca” ha deciso. Nessuno parli.