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April 30, 2014
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Una storia orrenda, che fa ribrezzo e che ci fa vergognare

Tommaso Della LongabyTommaso Della Longa
Time: 4 mins read

Vi racconto una storia. Siamo a Ferrara, Italia, una Repubblica democratica. Quattro persone uccidono un ragazzo inerme di 18 anni. Ci sono dei testimoni, ma vengono intimiditi. La famiglia confida nella giustizia. Il silenzio e l’omertà regnano sovrani e le uniche notizie che trapelano parlano di un tossico che aveva dato in escandescenza. La stampa locale viene avvisata di parlarne il meno possibile. Gli assassini intanto rimangono a piede libero. Solo dopo molto tempo si apre un processo che faticosamente arriverà a una condanna definitiva. Gli assassini faranno qualche mese di carcere e poi torneranno al loro lavoro quotidiano, come nulla fosse. Successivamente, in un evento pubblico, centinaia di persone, con tanto di politici presenti, applaudono tre dei quattro assassini. 

Una storia che fa ribrezzo. Una storia drammaticamente vera. Una storia che è ancora più vergognosa perché le quattro persone in questione, Paolo Forlani, Luca Pollastri, Monica Segatto e Enzo Pontani, sono poliziotti, tutori dell’ordine, servitori dello stato, per capirci quelle divise che hanno giurato di difendere la nazione e i suoi cittadini. Il ragazzo si chiama Federico Aldrovandi e la sua storia, fortunatamente, ormai è salita agli onori delle cronache solo grazie al coraggio della sua famiglia, di un testimone e di qualche cronista che non si è fatto tappare la bocca. La Cassazione ha confermato la condanna ai quattro poliziotti per omicidio colposo e nelle motivazioni si legge che gli agenti agirono esercitando un’azione “sproporzionatamente violenta e repressiva” e che “le condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive sono state individuate da un lato nella serie di colpi sferrati contro il giovane, dall’altro nelle modalità di immobilizzazione del ragazzo, accompagnate dall’incongrua protratta pressione esercitata sul tronco”. I quattro signori in questione oggi sono liberi e possono ancora vestire la divisa, quella che rappresenta lo Stato. 

Basterebbe questo racconto per inorridire. Ma purtroppo non è finita qui. L’anno scorso il Coisp, un sindacato di polizia, ha manifestato sotto le finestre della mamma di Federico la propria solidarietà agli assassini. E poche ore fa, al congresso nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia (SAP), la platea si è alzata in piedi per una standing ovation di cinque minuti all’entrata di tre dei quattro carnefici del giovane ferrarese. In platea erano presenti anche i politici Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia, Maurizio Gasparri e Lara Comi di Forza Italia. A questo allegro trio si aggiunge Matteo Salvini della Lega Nord che, subito dopo il fatto, corre a esprimere la propria solidarietà alle forze dell’ordine. 

Non c’è neanche bisogno di sottolinearlo, è chiaro che questa storia va ben oltre le “cose dell’altro mondo”: fa venire il volta stomaco, ti fa mancare la terra sotto i piedi pensando a Patrizia e Lino, i genitori di Federico, che dopo avere avuto un figlio ammazzato dallo Stato, devono anche vedere altri appartenenti alle Istituzioni (poliziotti e politici) che applaudono gli aguzzini.

Qualche riflessione però si deve fare. Partiamo dalla politica: per l’ennesima volta qualcuno ha visto bene di soffiare su populismo e ignoranza per cercare di guadagnarsi qualche voto in più alle prossime elezioni europee. I rappresentanti di tre partiti italiani non hanno perso l’occasione di presenziare e solidarizzare con degli assassini sperando di avere un ritorno elettorale, quando chi siede in Parlamento forse dovrebbe pensarci due volte prima di fare una cosa del genere.

Passiamo poi alle forze dell’ordine. Com’è possibile che la Polizia non capisca che condannare, allontanare e prendere le distanze dalle mele marce servirebbe anche e soprattutto a loro? Perché le forze dell'ordine non si lamentano del fatto che degli assassini ancora vestono la divisa? Come possono esigere rispetto nella cittadinanza che deve vivere questi soprusi degni di un regime e non di una democrazia? La sensazione di vergogna e di sgomento è forte. Sembra quasi che le forze dell’ordine ragionino come un branco, un’ennesima casta, che sentendosi sotto accusa serra i ranghi e si comporta come una qualsiasi gang. Peccato che chi veste la divisa rappresenta tutti noi. E che quindi un crimine compiuto da un rappresentate dello Stato è doppiamente odioso perché tradisce soprattutto la fiducia e il mandato avuto proprio dai cittadini. Finché istituzioni e forze dell’ordine non capiranno tutto questo, purtroppo, non ci sarà un reale cambiamento.

D’altra parte siamo in una nazione dove non c’è il reato di tortura, dove i celerini non hanno un numero di riconoscimento sui caschi e dove le condanne contro chi uccide, delinque, usa violenza in divisa sono pochissime. E quando ci sono, sono solo frutto di famiglie coraggiose e piene di dignità o di cittadini che con il proprio smartphone riescono a riprendere il sopruso. Altrimenti solo un assordante silenzio, tanta omertà e uno spirito (malato) di corpo che porta i colleghi ad auto proteggersi. Altrimenti uno dei quattro assassini di Federico avrebbe potuto tentare di fermare il pestaggio e successivamente denunciare i colleghi, ma questo non è avvenuto. Come non è successo per i poliziotti presenti mentre l’agente di polizia stradale Luigi Spaccarotella sparava e uccideva Gabriele Sandri. E come non succede in quei tanti, troppi casi che a malapena vedono l’inizio di un processo. Dino Budroni, Massimo Casalnuovo, Giuseppe Uva, Riccardo Magherini, Stefano Cucchi, Riccardo Rasman, Gregorio Fichera, sono alcuni dei nomi di cittadini italiani uccisi dallo Stato.

Se si ha un cancro, lo si opera per evitare la contaminazione di altri organi, le metastasi e quindi la morte. Serve un’operazione di verità e trasparenza: altrimenti l’Italia, purtroppo, continuerà a correre veloce verso un abisso nero fatto di impunità, silenzio e omertà.

Twitter: @TDellaLonga

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Tommaso Della Longa

Tommaso Della Longa

Giornalista, giramondo, romano e romanista, classe 1980. Scrittura e viaggio sono la mia vita. Per anni freelance in zone di crisi, poi nell’umanitario, prima nella Croce Rossa Italiana e poi in quella Internazionale. Ho tanti posti preferiti, tra cui Gerusalemme, Beirut, il Turkana e Belfast. Porto nel cuore le storie delle persone incontrate, dal Congo alla Siria, fino alle strade italiane. Il sorriso dei migranti, in Serbia come in Iraq o a Lampedusa, mi spinge ad andare avanti cercando di capire, imparare e raccontare sempre la verità, anche se scomoda. Ho denunciato gli abusi “in divisa”, come ho indagato sulle pagine buie degli anni di piombo. Dopo un anno a Beirut, sono tornato a Roma, perché ancora credo si possa costruire qualcosa in Italia. Sono un irriducibile idealista, lo so.

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