Quando andavo a scuola, prima dell’Università, perché quella è un’altra storia, appartenevo alla schiera di studenti che andavano bene ma che non sconfinavano nel mondo dei cosiddetti “secchioni” né in quello dei ripetenti svogliati. I primi venivano considerati, secondo le dinamiche/rituali di gruppo, bravi a prendere voti alti, meno nelle relazioni sociali perché presi a spendere ore nello studio.
Spesso conoscevano nozioni, definizioni, date a memoria e sembravano macchine poco umane, troppo distanti per stare con gli altri comuni mortali. I secondi potevano risultare anche più simpatici, ma spesso tiravano indietro, si distraevano e distraevano con grande facilità. In mezzo un gruppo multiforme, una sorta di classe media costituita da chi “surfeggiava" studiando quanto bastava, chi solo perché lo imponeva la famiglia, altri che eccellevano in alcune materie e meno in altre, altri ancora che spiccavano il volo se trovavano gli insegnanti giusti oppure per orgoglio e rivincita personale.
Intorno strutture scolastiche piuttosto bruttine, professori che cambiavano continuamente, qualcuno molto severo ed esigente, altri che si comportavano da amiconi, altri iperpoliticizzati, molti preparati ma tanti anche che ti chiedevi come facessero a stare lì con uno stipendio pubblico.
Insomma, un mondo, quello della scuola, nel quale piano piano non devi occuparti solo di studiare ma di costruire alcune strategie di quotidiana socializzazione, spesso oscure agli stessi genitori. Questi cercano di seguire il percorso di studio, i voti, i risultati, ma non sempre sono capaci di comprendere quella quotidianità che si gioca tra alleanze, segreti, desideri di prevalere, conformismi e anticonformismi, paura di emarginazione e desiderio di riconoscimento. D’altra parte sono situazioni che ognuno scopre sulla propria pelle, praticandole. La scuola diventa, allora, per molti ragazzi una sorta di esperienza dell’arte di arrangiarsi, che si alimenta anche di tutto quanto viene vissuto fuori. Le istituzioni si percepiscono distanti, la famiglia fa fatica a capire, il gruppo di pari, se va bene, dura lo spazio di qualche anno.
Sono anni in cui si impara a capire cosa vuol dire vivere in Italia. Si ascoltano le lamentele in casa e fuori, s’incontrano le prime difficoltà burocratiche, si vivono le prime esperienze di vera e propria disuguaglianza di trattamento.
Non resta, allora, che trovare, nell’incertezza delle situazioni, le soluzioni e le strategie migliori. E ci si abitua presto a pensare che in Italia sia così.
No, non ragazzi bamboccioni o choosy, come qualche eminente politico li ha definiti. Ma ragazzi che, seppur dai non brillanti risultati scolastici rispetto ai loro coetanei di altri paesi, in grado di gestire meglio le situazioni improvvise.
Ma tutte queste sono semplicemente riflessioni di chi scrive? Solo in parte, perché sono anche, e qui sta il bello, il risultato di un indagine volta dall’OCSE, attraverso il test PISA, sul livello scolastico degli studenti dei paesi appartenenti all’organizzazione. Ebbene, gli italiani eccellono nelle capacità di problem solving, cioè in quelle attività pratiche che normalmente possono generare difficoltà nella quotidianità come: far partire un condizionatore d’aria senza istruzioni, acquistare un biglietto del treno da una macchina distributrice, utilizzare una mappa elettronica in un posto sconosciuto, ecc… . Siamo al decimo posto dietro i fenomenali asiatici, al pari di francesi e olandesi, ma sopra tedeschi, americani e russi, e al di sopra nettamente della media OCSE. Non brillano invece in matematica e scienze, ma questo lo potevamo sospettare.
Se guardiamo ai risultati per aree geografiche, sussistono delle differenze molto marcate tra Nord e Sud. Nel Nord si raggiungono vette da primi posti nella classifica globale.
In sintesi i ragazzi italiani hanno un rapporto con la realtà che li vede molto adattabili, disincantati, e pieni di iniziativa.
In un mondo che si divide in pianificatori e improvvisatori, noi italiani, ragazzi o meno, ci posizioniamo più dalla parte degli improvvisatori. Non situazione improvvisata, ma improvvisazione situata. E’ si tratta di una bella differenza.
Così sostiene lo scrittore e giornalista Bill Bryson: “Se gli italiani possedessero l'etica del lavoro dei giapponesi, potrebbero essere i padroni del pianeta. Grazie al cielo non ce l’hanno.”. E’ vero…la matematica, no, non la digeriamo.