Anche se siamo in tempo di quaresima, il prossimo, per gli assetati e gli affamati di giustizia, potrebbe essere un martedì grasso. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano deciderà sulla pena di Berlusconi; la Corte di Cassazione sulla condanna di Marcello Dell’Utri per concorso eventuale in associazione mafiosa.
I provvedimenti attesi sono al centro di un’accorta preparazione, diciamo una specie di sollecitudine maieutica, perché vengano al mondo bene, non si sa mai. Con il consueto equilibrio, magistratura e stampa indipendente stanno facendo quello che devono fare. Oltre che di quaresima, è pure tempo di elezioni, non va dimenticato; e nessuno di costoro lo può dimenticare.
Così, sulla richiesta di Berlusconi, il Procuratore Generale ha espresso parere favorevole, aggiungendo però che l’affidamento in prova ai Servizi Sociali può sempre essere revocato. Per non lasciare “l’istante” a mezz’aria – istante, non come mistero platonico-parmenideo fra l’Essere e il Non-Essere, ma come persona che formula una richiesta – a lacerarsi fra speranza e timore, gli ha offerto con impagabile longanimità un esempio: su cui meditare, con cui orientarsi nel fecondo cammino di emenda e riabilitazione che lo attende. La revoca potrebbe intervenire se “diffama i giudici”. Cioè se ne parla male, se li critica duramente. L’Italia è un paese libero: ma senza esagerare.
Scrigno di squisita raffinatezza entro cui si cela il veleno dell’allusione. Il gioco è condotto su due piani paralleli. Il primo è quello della forma: ineccepibile. Tutte le misure alternative alla detenzione durano se la “sorveglianza” a cui sono sottoposte conferma che il condannato si sta rieducando; altrimenti, dalla carota bisogna passare al bastone. L’altro piano è scivoloso e, forse, anche inclinato: dalla giustizia verso il sopruso, dall’Accademia a Mao-Tse-Tung.
Ma ho scritto di raffinatezza, e l’ammonimento che sembra e vuole sembrare un avvertimento, in fondo, è fin troppo scoperto. No, non è questo il punto, o non è solo questo. Si poteva insistere per gli arresti domiciliari. Sarebbe stata una richiesta costrittiva di routine, per la Pubblica Accusa. Tuttavia, con le elezioni in vista, sarebbe potuta risultare tatticamente controproducente, avrebbe potuto offrire il bonus della vittima. Perciò, nessuna routine.
Infatti, sciogliere i ceppi mostrando il cappio ha tutt’altra potenza; ha l’inarrivabile forza dell’insondabile, del misterioso, del terribile perché invisibile e incommensurabile. Se diffama. Se diffama. Un’infinità di parole potrebbe ritenersi diffamatoria; un’altra infinità di parole potrebbe ritenersi non diffamatoria. In udienza, a corroborare la clausola, si è esibito un articolo giornalistico in cui si riferiva di “mafia dei giudici”. Parola grossa; ma il parere è stato favorevole. E allora cos’è diffamatorio?
A distinguere il bianco dal nero, e si badi: non in un giudizio ordinario, per quanto falso e falsato possa essere; ma entro le assai più eteree procedure di “revoca” e di “rivalutazione della misura”, non ci sarebbe altro, allora, che l’impercettibile sentimento, la volontà che oggi sì e domani no, e ieri nemmeno: visto che “mafia dei giudici” non ha impedito un parere favorevole.
Molteplici gli effetti di questo minuetto. Si previene il rischio del bonus-vittima, alitando però la lesa-maestà, quale peccato unico che non bisogna mai commettere e la cui concreta configurazione è, di volta in volta, rimessa alla discrezione della maestà medesima. Inoltre, si rammenta urbi et orbi chi comanda: anche e soprattutto per quanti, giovani e meno giovani, avessero stoltamente in animo di porre mano a questa satrapia tirannica che, con ineffabile gusto blasè, in Italia qualcuno definisce Ordine Giudiziario. Per questo parlavo di raffinatezza: non per nulla, qui abbiamo avuto la migliore Inquisizione del pianeta. Questo, dunque, il viatico che una cultura e una moralità plurisecolari hanno compendiato per “l’istante”.
In tempi normali sarebbe potuto anche bastare. Ma c’è la campagna elettorale. Perciò, zucchero non guasta bevanda. La Corte di Appello di Palermo ha disposto la custodia cautelare in carcere per Dell’Utri. Prima la Procura Generale aveva chiesto il divieto di espatrio. Rigetto, perché per il reato contestato, a fini cautelari, la legge prevede solo il carcere. O Tutto o niente. Evidentemente in procura non avevano capito, o non erano convinti di tanto diritto. E avanzano una seconda richiesta. Rigetto. Così, si vedono costretti ad invocare l’arresto. Nel frattempo Dell’Utri si è reso latitante. E la parola, per certi usi, è meglio di un gargarismo.
La sentenza di condanna a sette anni, per la cui esecuzione si è avuta tanta apprensione, è quella già annullata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2012. Si era rilevato, allora, che dal 1974 al 1977 Dell’Utri aveva mediato richieste di denaro, provenienti dagli “uomini d’onore” Bontade e Teresi, per evitare che sequestrassero i figli di Berlusconi, (pagamenti “provocati da…spregevoli azioni intimidatorie poste in essere in danno della sua [di Berlusconi] famiglia”); dal 1978 al 1982, Dell’Utri aveva lavorato con Filippo Rapisarda e, perciò, non si era dimostrato che seguitasse a mediare fra mafia e Berlusconi; dal 1982 al 1992, i suoi contatti avevano perduto il carattere di mediazione avendo assunto “i corleonesi”, nuovi padroni di Cosa Nostra, una posizione univocamente ostile a Dell’Utri.
Secondo le angeliche previsioni del codice, scritto da cultori dell’astrazione più psichedelica, la Corte di Appello avrebbe dovuto ammettere l’errore. Naturalmente non lo ha fatto, e ha rispedito le censure al mittente, cioè a Roma. Così, per caldeggiare uno dei capi della fune, è arrivato, trafelato, l’arresto in terza battuta. Buon martedì grasso.
Per un'opinione diversa sul caso Dell'Utri, leggete Left Turn