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March 19, 2014
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Benessere e spazio vitale in Europa, oltre il pensiero unico liberista

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Time: 4 mins read

Dal secondo Ottocento alla seconda metà del Novecento le nazioni occidentali hanno finanziato le riforme sociali e politiche imposte dai movimenti operai e dai partiti di sinistra con la sistematica appropriazione delle risorse di altri paesi. Il caso più evidente è quello dell’imperialismo inglese e francese: ai capitalisti sembrò più conveniente soddisfare la propria avidità di denaro e potere a spese di popoli più arretrati, schiacciandoli militarmente, piuttosto che a spese della popolazione dei propri paesi, schiacciandola con la polizia e la censura. Gli Stati Uniti non furono un’eccezione: la conquista dei territori degli indiani e del Messico e lo schiavismo diedero alla loro classe dirigente la possibilità di arricchirsi senza entrare in tensione con la classe media e i lavoratori. In sostanza, la democrazia e lo stato sociale sono fiorite in Occidente grazie allo sfruttamento del resto del mondo.

Non è un caso che Italia e Germania, che si trovarono a subire forti pressioni interne senza avere imperi a cui far pagare i costi del welfare, reagirono con il nazionalismo prima e con il fascismo dopo, creando stati fondati sul mito della propria superiorità etnica e della necessità storica di soggiogare i popoli “inferiori”: nel caso dell’Italia la retorica fu quella della “vittoria mutilata” e del “posto al sole”, nel caso della Germania il Lebensraum, lo “spazio vitale” da conquistarsi a est. E non è un caso che negli Stati Uniti il ritorno dell’isolazionismo a seguito della prima guerra mondiale fu accompagnato dalla “paura rossa”, cioè alla sistematica e brutale repressione grazie a cui l’opposizione radicale e socialista fu per sempre eliminata dal panorama politico americano: in quel caso la rinuncia a imporre la propria supremazia economica all’esterno portò i poteri forti a imporla all’interno.

C’è ammirazione quasi unanime, fra gli italiani, per la Germania di Angela Merkel. Fra gli arrivisti berlusconiani perché molti tedeschi sono ricchi: basta andare in giro per Monaco e contare le Mercedes S500 e Audi A8 in circolazione. Fra i piddini di sinistra (per le margherite vale quanto detto dei berlusconiani) perché in Germania c’è meno disuguaglianza e poca disoccupazione: anche la classe media è benestante. Fra gli italiani meno abbienti perché lo stato sociale tedesco è generoso e assicura assistenza medica, sussidi, educazione. Fra gli ambientalisti perché pratica una politica verde. Fra gli appassionati di calcio perché il Bayern è la squadra più forte del mondo.

Senza fare caso (o preferendo non fare caso) al fatto che la ragione per cui Merkel è stata in grado di soddisfare le aspirazioni di tutti i gruppi sociali è che a pagare siamo proprio noi, gli italiani, insieme ai greci, agli spagnoli, ai polacchi. Anche il mercato e la mano d’opera ucraini sono necessari alla Germania per continuare ad arricchire la sua plutocrazia e al tempo stesso mantenere il tenore di vita del resto dei tedeschi.

Della Crimea non gliene frega niente a nessuno: anche Merkel sa bene che l’Ucraina non ha titoli per rivendicarne il possesso, visto che si tratta di una repubblica autonoma abitata a larga maggioranza da russi. Tutta questa copertura mediatica, tutto questo allarmismo, hanno lo scopo di far passare, in cambio, il resto dell’Ucraina sotto il dominio dell’euro, ossia della Germania. Che così continuerà a essere una società opulenta e non solo, come l’America, nelle statistiche del PIL, con una piccola minoranza di miliardari e enormi sacche di miseria assoluta e un endemico indebitamento. No, tutto il popolo tedesco beneficia del dominio economico della nazione sul suo spazio vitale: l’Europa.

Occorre prendere atto che le promesse di eterno sviluppo e di diffuso benessere su cui il capitalismo ha fondato la sua supremazia, e grazie alla quali ha sconfitto storicamente l’Unione Sovietica, erano strumentali. Non appena è caduta la minaccia comunista è iniziato l’attacco ai sindacati, ai partiti di sinistra, allo stato sociale. Persuasi della propria onnipotenza, i ricchi sono tornati per default all’irresponsabile avidità della Gilded Age e dei ruggenti anni venti, fomentando ancor più di allora il consumismo e la crescita demografica pur di accrescere i propri profitti. Così in pochi decenni sono state dissipate risorse naturali accumulate in milioni di anni e anche da un punto di vista culturale il patrimonio sviluppato in millenni di civiltà è stato quasi interamente sperperato dal materialismo del libero mercato.

Alle anime belle piace illudersi che la tecnologia troverà le soluzioni. I plutocrati sanno benissimo che non accadrà. La rivoluzione tecnologica degli anni novanta e nel primo decennio del nuovo millennio ha cambiato lo stile di vita di miliardi di persone ma non ha accresciuto il loro benessere reale: tutti gli indici mostrano che la gente, in Occidente, sta peggio di come stava negli anni cinquanta o sessanta, e che anche i paesi emergenti stanno pagando la loro crescita a un prezzo spaventoso in termini di distruzione dell’ambiente e delle comunità, riduzione della qualità della vita, perdita di dignità delle persone. In cambio, hanno solo più tablet e smartphone.

Il pensiero unico liberista ha solo due modelli di sviluppo da proporre: quello tedesco, che per mantenere la coesione interna e lo stato etico nazionale ha bisogno appunto di un Lebensraum, di una continua espansione territoriale (che non significa annettersi altri paesi: basta controllarne le politiche monetarie e finanziarie). Oppure quello americano, pragmatico e amorale e che per questo può fare a meno di uno spazio vitale e può accettare la libera concorrenza: tanto sfrutta i propri cittadini con la stessa brutalità con cui sfrutta quelli di altre nazioni. Vogliono convincerci che non ci siano alternative. Non è vero. La terza via è quella dell’eguaglianza, della distribuzione della ricchezza, della decrescita demografica e della diminuzione dei consumi, della regolamentazione dei mercati e della tassazione delle transazioni finanziarie, dell’eliminazione del copyright, del controllo pubblico dei servizi e delle risorse, ossia del ritorno ai beni comuni.

Cose molto ovvie, molto semplici, che gran parte della gente già condivide e che per questo i media e gli intellettuali al soldo del potere si affannano a negare come irrealizzabili. Questa è dunque la sfida, questa è la lotta che ci aspetta. Prendere coscienza che il benessere di tutti è inconciliabile con l’oscena ricchezza di pochi. Che l’unico spazio davvero vitale è quello delle comunità e della solidarietà.

 

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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