Secondo una celebre leggenda, a una domanda sulle conseguenze della Rivoluzione francese, il primo ministro cinese Zhou Enlai avrebbe risposto, nel 1972: "È troppo presto per dirlo". La leggenda è spuria, ma rimane pur sempre un bell’aneddoto, utile a chi, di fronte ad una qualsiasi novità politica, si conceda il lusso di prendere un po’ di tempo prima di esprimere un giudizio.
L’elezione di un papa è certo meno importante della Rivoluzione francese; ma è molto più importante di una novità politica “qualsiasi”. Ogni giudizio, quindi, richiede tempo e misura. In particolare nel caso di papa Francesco, salito al soglio “solo” un anno fa.
A parte qualche eccezione (Ratzinger e Pacelli nell’ultimo secolo), occorrono di regola alcuni anni prima di capire quale sia la cifra politica di un nuovo papa. Diverse testimonianze – da Camillo Ruini ad Andrea Riccardi – raccontano come, nei primi anni del suo pontificato, Karol Wojtyła sia stato incompreso e perfino osteggiato da una parte dei prelati, italiani in testa.
La cosa è resa ancora più complicata, nel caso di Jorge Mario Bergoglio, dal fatto che mai prima d’ora c’è stato un papa extraeuropeo, né un papa gesuita. Ma anche dal fatto che alcuni commentatori impazienti stanno confondendo le piste: i progressisti immalinconiti dal rigore degli ultimi due pontefici, attendono un papa che finalmente dica qualche cosa di sinistra; i conservatori che avevano dipinto Ratzinger a loro immagine e somiglianza sono sull’orlo di una crisi di nervi.
Con l’indispensabile cautela dovuta alle ragioni di cui sopra, ci limiteremo dunque qui ad avanzare alcune ipotesi di lettura politica di questo primo anno di pontificato di papa Francesco.
Fin da subito, Jorge Mario Bergoglio ha voluto marcare il proprio pontificato con tre posture molto appariscenti: 1) un cambio di velocità nello stile, al tempo stesso più sobrio e più sbrigliato; 2) un richiamo costante alla propria funzione come “vescovo di Roma”; 3) la sottolineatura dell’entusiasmo missionario. Uno degli scopi delle scelte appariscenti è di attirare l’attenzione; e in un’epoca in cui i media sono sempre più affamati di scoop, e in cui i popoli hanno sempre più bisogno di “eroi”, gli atteggiamenti appariscenti possono facilmente diventare novità sensazionali.
Nel caso di papa Francesco, quest’impressione andrebbe tenuta a freno. All’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II aveva adottato uno stile e un linguaggio che, all’epoca, parvero molto più rivoluzionari di quelli odierni del papa argentino. “Scrutare i segni dei tempi”, come raccomandato dal Concilio Vaticano II, implica anche adattare le forme alla loro plausibilità sociale: se oggi il papa si facesse trasportare sulla sedia gestatoria – come fece ancora Giovanni Paolo I – raccoglierebbe probabilmente più lazzi che rispetto.
L’insistenza sul titolo di “vescovo di Roma” ha lo scopo abbastanza trasparente di dare alla funzione papale un carattere simbolico più accettabile alle altre Chiese cristiane, in particolare agli ortodossi. Giovanni Paolo II aveva già manifestato nel 1995 l’intenzione di trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Anche se nelle relazioni tra le religioni – e tra i cristiani in particolare – i simboli hanno un’importanza superiore alla media sociale, una nuova forma di “esercizio del primato” (vulgo: il ruolo del papato nella cristianità) non si può certo esaurire in un semplice espediente lessicale. Tanto più che, nell’Annuario pontificio 2013, Francesco ha conservato, seppur in posizione subordinata, tutti gli altri titoli tradizionali ("Vicario di Gesù Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia, Arcivescovo e metropolita della provincia romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio") – senza peraltro ripristinare il titolo di “patriarca d’Occidente” (cancellato da Benedetto XVI). Un titolo che, come ha fatto notare Sandro Magister, è proprio quello che gli ortodossi sarebbero disposti a concedere al vescovo di Roma.
La terza scelta – la sottolineatura dell’entusiasmo missionario – è, in prospettiva, la più impegnativa; ma neppure quella rappresenta una novità. Il documento finale della Conferenza del Consiglio episcopale latino-americano di Aparecida, nel 2007, redatto a quanto pare dallo stesso Bergoglio, portava già chiaramente le indicazioni di una “pastorale missionaria” (vulgo: un’attività di reclutamento) come punto d’approdo della “nuova evangelizzazione” messa in cantiere da Giovanni Paolo II. Un’impostazione che Benedetto XVI aveva salutato nel discorso introduttivo alla Conferenza, affermando che tutti i fedeli, "in virtù del loro Battesimo, sono chiamati ad essere discepoli e missionari di Gesù Cristo". Se questa nuova dinamica missionaria può a giusto titolo essere considerata come lo specifico contributo latinoamericano alla Chiesa universale, si può azzardare l’ipotesi che la Chiesa universale fosse destinata a latinoamericanizzarsi anche senza un papa latinoamericano.
Una prudente diffidenza verso i facili entusiasmi (e le ancor più facili apprensioni) per le presunte novità del pontificato di Bergoglio non significa sostenere che nulla sia cambiato. Un fronte sul quale papa Francesco è obbligato a mostrarsi fortemente innovativo è quello delle stalle di Augia delle istanze dirigenti della Chiesa, alla cui pulizia radicale è stato espressamente chiamato dai cardinali che lo hanno eletto. Un compito spesso presentato come la necessità di una “riforma della Curia romana”, ma che, ci sembra, va ben al di là della Curia romana.
Qualche settimana prima di diventare papa, Joseph Ratzinger aveva pubblicamente sferzato la "sporcizia", la "superbia" e l’ "autosufficienza" presenti nella Chiesa, "proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!". E, appena eletto, aveva esclamato: "Non lasciatemi solo, pregate per me, perché io non fugga per paura dinanzi ai lupi". Quando i lupi ebbero infine ragione dell’aspirante domatore, Massimo Franco aveva evocato il clima di "inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari", e la "lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all’ombra della cupola di San Pietro".
Per quanto a ritroso si vada nella storia della Chiesa, la vita «all’ombra della cupola di San Pietro» è sempre stata scandita da manifestazioni di "conflitti, manovre, tradimenti", anche molto prima che la cupola di San Pietro fosse progettata. Forse, a causa del suo percorso più intellettuale che politico, Joseph Ratzinger è stato troppo ingenuo; forse, al contrario, non è stato nient’affatto ingenuo e ha voluto, col gesto spettacolare e alquanto rischioso delle sue dimissioni, accelerare il tentativo di soluzione di un problema di autoreferenzialità al limite dell’autismo in seno al gruppo dirigente della Chiesa. Un’autoreferenzialità che non era d’intralcio all’epoca in cui la Chiesa viveva di una sorta di rendita di posizione, e la sua preoccupazione maggiore era, come scriveva Gramsci, di "difendere i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina". Un’autoreferenzialità che diventa invece un rischio maggiore all’epoca in cui la Chiesa opera a controcorrente in un’atmosfera secolarizzata, si trova confrontata ad altre culture e ad altre religioni anche sulle proprie terre, e vuol stabilire con quelle culture e quelle religioni una fruttuosa collaborazione nella comune lotta contro la secolarizzazione.
Il successore di Benedetto XVI è stato quindi eletto con il mandato specifico di dedicarsi a questa grande opera di pulizia. Può apparire strano che una parte di coloro che sono compromessi nelle "inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari" incarichino qualcuno proprio di eliminare tutte queste "sporcizie", cioè di svuotare l’acqua in cui nuotano. Per capire questa stranezza occorre tenere a mente che, come si poteva leggere in un editoriale di Limes del 1993, "quello che per uno Stato si definisce interesse nazionale, per la Santa Sede è invece l’interesse cattolico".
In uno Stato, prevale l’interesse nazionale quando i singoli interessi particolari sono disposti a rinunciare a qualcosa allo scopo di ottenere in futuro un vantaggio collettivo. Prima del conclave che ha eletto Jorge Mario Bergoglio, i cardinali si sono messi d’accordo per fare tutti un passo
indietro allo scopo di mettere la Chiesa nel suo insieme nella condizione di fare un grande passo in avanti.
In uno Stato, non appena i singoli interessi particolari abbiano definito l’interesse nazionale, ciascuno ricomincia inevitabilmente a tirare la coperta dalla propria parte. In seno alla Chiesa accade lo stesso. Questa è la ragione dei borbottii di questo o quell’episcopato, di questo o quel prelato. Questa è la ragione per cui non ci si può ancora pronunciare sulle chance di successo del tentativo di papa Francesco. Quel che è certo è che il papa argentino ci si è messo con fiero cipiglio, creando ad hoc un suo personale “G8”, un consiglio di otto cardinali con lo scopo di "aiutar[lo] nel governo della Chiesa universale".
Secondo il documento costitutivo firmato dal papa il 28 settembre scorso, il novissimo “Consiglio dei Cardinali” sarebbe frutto dei "suggerimenti emersi nel corso delle Congregazioni Generali di Cardinali precedenti al Conclave" (anche il festival di maiuscole ha una sua funzione). Il proposito era, secondo Francesco, "di istituire un ristretto gruppo di Membri dell’Episcopato, provenienti dalle diverse parti del mondo, che il Santo Padre potesse consultare, singolarmente o in forma collettiva, su questioni particolari". Secondo il titolo del documento, il compito del Consiglio sarebbe "di studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana"; nel testo, tuttavia, questa incombenza appare in forma subordinata ad un’altra, assai più sorprendente: quella, appunto, di "aiutarmi nel governo della Chiesa universale".
Ora, secondo l’art. 1 della Pastor bonus, la Curia romana "è l’insieme dei dicasteri e degli organismi che coadiuvano il romano Pontefice nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari"; vulgo: è il governo della Chiesa. Ma se il G8 di papa Francesco deve svolgere funzioni di "governo della Chiesa universale", allora non si tratta più solo di “riforma” della Curia, ma di esproprio (e/o sovrapposizione) di almeno una parte delle sue funzioni.
In una delle frasi ad effetto della sua esortazione Evangelii gaudium, Francesco afferma che "la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del 'si è fatto sempre così' ". Nel caso del G8, il "comodo criterio" sembra abbandonato in modo fragoroso. Ma, una volta di più, questo non significa che si stia assistendo ad una rivoluzione, né che la natura della Chiesa ne sia seriamente alterata. Possiamo ricordare, a mo’ di paragone, che negli Stati Uniti la funzione di Segretario di Stato venne istituita nel 1789, l’anno stesso della ratifica della Costituzione, mentre la funzione di Consigliere alla Sicurezza nazionale fu creata solo nel 1947. Un abbandono del "comodo criterio del 'si è fatto sempre così' " che non ha comportato alcuno stravolgimento della natura degli Stati Uniti d’America, neppure quando il consigliere alla sicurezza nazionale ha svolto un ruolo più importante del segretario di Stato.
Il Security Act del 1947 fu deciso per far fronte ad una sfida nuova e più impegnativa per gli Stati Uniti: la “guerra fredda”. Non possiamo dire se il G8 di papa Francesco sia destinato ad essere tanto longevo quanto il Consiglio per la sicurezza nazionale americano; ma, di certo, è nato anch’esso dall’esigenza di rispondere a una sfida particolarmente impegnativa, che il papa ha riassunto così ai vescovi italiani nel maggio scorso: destare i pastori "dal torpore della pigrizia, dalla meschinità, dal disfattismo". Oscar Maradiaga, coordinatore del G8 papale, ha confermato quanto già anticipato dal papa, e cioè che, per la riforma della Curia, "ci vorrà del tempo"; per far pulizia e per risvegliare lo slancio missionario "dal torpore della pigrizia, dalla meschinità, dal disfattismo", invece, non c’è tempo da perdere. Questa è la ragione per cui nel G8 convivono necessariamente le due nature, di riforma e di rimpiazzo delle funzioni della Curia.
È importante rammentare che, quando si parla di "governo della Chiesa universale", si tocca una delle corde sensibili – forse la più sensibile – della vita della Chiesa cattolica: quella del rapporto tra centro e periferia. La “politica internazionale” del Vaticano non riguarda soltanto la sua relazione con gli Stati, ma anche e soprattutto la relazione di Roma con gli episcopati locali. La funzione principale dei nunzi apostolici non è quella di tenere i rapporti con i governi che hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede, ma quella di presiedere alla coerenza tra le posizioni locali e quelle centrali. Non è un caso che due dei paesi in cui fu difficile stabilire delle nunziature apostoliche furono l’Irlanda e la Polonia: non per l’opposizione dei governi, ma per l’insofferenza del potente clero nazionale verso un controllo più stretto di Roma.
Francesco afferma nell’Evangelii gaudium che "non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori", e per questo invoca una "salutare decentralizzazione". Dichiarazioni che hanno fatto già spinto i più impazienti a parlare di un papa “federalista”. Altri commentatori, più sobriamente, hanno fatto notare che quest’impegno è per ora soltanto verbale e che, anzi, è stato accompagnato da decisioni che sembrano contraddirlo. Per Sandro Magister, Francesco sta governando la Chiesa in una «forma monocratica, accentratrice» che ricorda il «modo autoritario e rapido di prendere decisioni» dal papa stesso ricordato a proposito della sua esperienza di capo dei gesuiti in Argentina. Nel dicembre scorso, Magister sosteneva che alcune tra le più significative decisioni dell’inizio di pontificato "sono tutte discese da scelte personali di papa Bergoglio, talora fatte saltando i normali processi di consultazione o trascurando le norme in vigore".
Non abbiamo le competenze necessarie per esprimere un giudizio sulle affermazioni di Magister. Quel che è certo è che tra “salutare decentralizzazione” e “federalismo”, ci sono di mezzo mari e oceani. È comprensibile che un papa appartenente allo stesso ordine di Matteo Ricci conosca bene i rischi letali di un centralismo ottuso, e valuti correttamente l’importanza del "discernimento di tutte le problematiche che si prospettano" a livello locale. Ma è anche plausibile che un papa conosca i rischi ancora più letali di un’eccessiva autonomia dei singoli episcopati. La nascita di Chiese cattoliche nazionali (che i re e le repubbliche francesi tentarono per secoli di favorire, o che la Cina ha creato dopo il 1949) significa puramente e semplicemente la scomparsa della Chiesa cattolica. Lo sbandamento seguito all’ubriacatura federalista del dopo-Concilio è ancora ben presente nella mente di tutti i porporati.
L’Evangelii gaudium è il documento più importante fin qui prodotto da papa Francesco. Talvolta, leggendolo, l’analista politico piuttosto a disagio con il linguaggio allusivo della Chiesa crede di scorgervi gli indizi di un’impazienza febbrile, quasi la recriminazione per la perdita di otto anni di tempo prezioso. Un ritardo accumulato non certo sulle questioni essenziali, strategiche, sulle quali il papa argentino non può che ritrovarsi sulla stessa linea dei suoi due immediati predecessori; ma sul modo di presentare la “pastorale missionaria”, che è molto diverso da quello dei suoi due immediati predecessori, soprattutto dal papa tedesco.
Tra Ratzinger e Bergoglio, molte sono le differenze: di carattere, d’esperienza pastorale, d’origine geografica, di formazione dottrinale. Ma esiste anche – e molto importante – una differenza d’età. Non tanto d’età anagrafica (in fondo sono solo nove anni), quanto d’età d’esercizio: Ratzinger fu ordinato nel 1951, mentre Bergoglio lo fu nel 1969. Una distanza doppia rispetto a quella anagrafica, con una conseguenza importante: Bergoglio è il primo papa ordinato prete dopo il Concilio. Ratzinger, benché post-conciliare a tutti gli effetti, è cresciuto nella Chiesa pacelliana; Bergoglio, invece, si è formato nella Chiesa montiniana.
Questo implica un diverso attaccamento a "consuetudini… norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che – scrive Francesco – non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita". Non si tratta, insiste il papa, di un aspetto secondario: "una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere". Si tratta, né più né meno, di evitare di "trasformare la nostra religione in una schiavitù". E, chiunque sia il destinatario della stoccata, Bergoglio mostra di non far sconti: "A volte, un linguaggio completamente ortodosso… non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo… Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano". Anche l’analista non aduso al linguaggio della Chiesa riconosce che qui i margini d’allusività sono molto stretti.
Gli indicatori fondamentali (numero di preti, seminaristi, diaconi permanenti, parrocchie e fedeli) a livello mondiale sono quasi tutti (fanno eccezione le religiose) in crescita costante dalla seconda metà degli anni 1990. Ma si tratta di una crescita geograficamente e politicamente sperequata: in Asia e in Africa, tutti i numeri – compreso quello dei fedeli – crescono assai più rapidamente della popolazione; in Europa e in America, i fedeli crescono allo stesso ritmo della popolazione, mentre i sacerdoti sono appena stazionari sul continente americano e sono diminuiti del 9% in dieci anni su quello europeo. È vero che, in questi due continenti, si deve registrare l’incremento impetuoso dei diaconi permanenti (in dieci anni cresciuti del 43% in Europa e del 37% in America, cioè nei due continenti dove si concentra il 97,4% di tutti i diaconi del mondo); ma è pur vero che un diacono, ancorché permanente, non può esser messo sullo stesso piano di un sacerdote professo.
La sperequazione geografica sarebbe di poco momento se non avesse anche un’importante valenza politica. Infatti, "le affermazioni circa la responsabilità missionaria della Chiesa non sono credibili se non sono autenticate da un serio impegno di nuova evangelizzazione nei paesi di antica cristianità", scriveva Giovanni Paolo nel 1990 (vulgo: se la Chiesa vuole svilupparsi in Asia e in Africa, deve recuperare una parte della sua influenza perduta nei paesi che fecero da battistrada ai processi di secolarizzazione). Nell’ultimo quarto di secolo, le cose sono cambiate anche nei paesi "di antica cristianità", certo; ma non quanto sarebbe stato auspicabile e necessario agli occhi dei dirigenti della Chiesa. Per Bergoglio, una parte non minima di questo ritardo deve essere attribuita a quelle che potremmo definire le “scorie pacelliane” e le “scorie agostiniane” presenti nella Chiesa, cioè a quelle "consuetudini, norme o precetti ecclesiali" che, nella loro obsolescenza, sono divenuti un ostacolo maggiore.
Per Bergoglio, la Chiesa deve orientare e non giudicare. Nell’Evangelii gaudium, il papa ha messo in chiaro – per chi non l’avesse capito – che sui fondamentali (aborto, famiglia, individualismo, secolarismo, e anche sacerdozio maschile) le posizioni non cambiano, né sono destinate a cambiare: "Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa", ha detto nell’intervista a Civiltà Cattolica.
Quello che cambia è l’atteggiamento nei confronti del "peccato personale e sociale", ovvero quando avviene "il drammatico incontro tra il peccato del mondo e la misericordia divina". Quando il papa afferma che non si sente in grado di giudicare gli omosessuali, manda in sollucchero i wishful thinkers progressisti e getta nella costernazione i puristi ratzingeriani. Ma gli uni e gli altri sembrano essere, una volta di più, troppo precipitosi; infatti il papa ha aggiunto: "Non si devono discriminare o emarginare queste persone, lo dice anche il Catechismo". Il richiamo al Catechismo della Chiesa cattolica (reiterato a questo stesso proposito nell’intervista a Civiltà Cattolica) non è anodino. Il ricco prontuario di 900 pagine, curato da Joseph Ratzinger e varato in forma definitiva nel 1997, è esplicito sull’argomento: gli omosessuali "devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza [evitando] ogni marchio di ingiusta discriminazione" (§2358). Ma subito prima (§2357) è specificato che "gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. […] In nessun caso possono essere approvati". E subito dopo (§2359): "Le persone omosessuali sono chiamate alla castità". Lo dice il Catechismo.
Le questioni essenziali, strategiche, su cui tutta la “generazione Giovanni Paolo” dell’episcopato concorda, riguardano l’estensione dell’influenza della Chiesa sullo spazio religioso e delle religioni sullo spazio pubblico.
José Mario Bergoglio è due volte wojtyliano: non solo perché è stato nominato cardinale da papa Wojtyła nel 2001 nel quadro della sua politica di omogeneizzazione del Sacro collegio; ma anche, e soprattutto, perché si è schierato dalla parte del papa polacco quando questi ha commissariato la Compagnia di Gesù, silurandone il capo Pedro Arrupe nel 1981. Non è quindi plausibile che papa Francesco voglia rinunciare al vantaggio politico rappresentato dalla linea dell’etica dei doveri formulata da Karol Wojtyła e Joseph Ratzinger, attorno cui si strutturano sia la missione sociale della Chiesa che la proposta di “santa alleanza” rivolta alle altre grandi religioni mondiali. Fin dal secondo paragrafo dell’Evangelii Gaudium, Francesco ribadisce che "il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata".
Il papa non volge le spalle a questa linea, dunque, ma intende ricondurla, secondo le sue parole, ad "una adeguata proporzione". E spiega: un parroco che "parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte sulla carità o sulla giustizia" trasmette un messaggio “sproporzionato”, che finisce coll’oscurare alcune virtù a profitto di altre (soprattutto la misericordia, "la più grande di tutte le virtù").
"Il confessionale non dev’essere una sala di tortura". "La Chiesa non è una dogana". "L’Eucaristia… non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli". Queste sono alcune delle frasi ad effetto che accompagnano la tesi dell’ "adeguata proporzione". Ma quella che forse esplicita meglio il senso dell’operazione in corso è la seguente: "Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze". Una Chiesa inclusiva, insomma, e non esclusiva. È intorno a questo concetto che ruota la linea latinoamericana della "Chiesa in uscita", varata ad Aparecida nel 2007 e ora in procinto di essere universalizzata. Lo "stato permanente di missione", che deve coinvolgere tanto il clero quanto i fedeli,– sottolinea Bergoglio – "ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti".
Non è tanto importante sapere se Bergoglio sia l’autore materiale del documento di Aparecida; quel che è importante è che Bergoglio interpreta il sentimento prevalente a quella Conferenza. Già prima del suo inizio, il vescovo italiano di Tilarán (Costa Rica), Vittorino Girardi Stellin, invitava a "riscoprire la dimensione personale dell’annuncio, il contatto diretto con le persone, a partire dal loro ambito concreto di vita"; sua intenzione era "di istituire un vero e proprio ministero della visitazione, formando persone che diano tempo e disponibilità a raggiungere i fedeli nelle loro case". Il suo collega Carlos Aguiar Retes, allora vescovo di Texcoco (Messico), e attuale presidente della Conferenza episcopale latinoamericana, annunciava un "cambiamento di logica di fondo: da una 'attenzione clientelare' si tratterà di passare a un’ottica veramente missionaria". L’attuale arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, già vescovo ausiliare di Rio de Janeiro e poi vescovo di Petrópolis (Brasile), sottolineava l’esigenza «prioritaria» di incontrare i fedeli "uno ad uno", senza dimenticare di coinvolgere tutti gli ambiti della vita e della società, "compresi la cultura e i mass-media".
Cláudio Hummes, già arcivescovo di San Paolo, all’epoca prefetto della Congregazione per il clero, è stato un tempo considerato il grande regista della Conferenza di Aparecida. La sua idea era di dar vita ad un "piano missionario continentale organizzato", che vedesse in ogni parrocchia da 200 a 300 “missionari” capaci di parlare alle famiglie "indebolite dalla solitudine delle grandi città, [che] finiscono col conoscere il Gesù propagato dalle sétte". E indicava con precisione i destinatari di questa ambiziosa opera missionaria: i battezzati non praticanti. "La grande maggioranza dei cattolici del nostro continente non partecipa alla vita delle nostre comunità ecclesiali. Costoro hanno diritto ad essere evangelizzati, dal momento che noi all’atto del battesimo abbiamo assunto l’impegno di condurli a Gesù Cristo".
Come tutte le altre istituzioni, anche la Chiesa cattolica ha bisogno è scossa dal torpore routinario, dal "comodo criterio del 'si è sempre fatto così' ", quando subisce delle crisi. La sua incapacità a star dietro ai mutamenti sociali indotti dallo sviluppo economico del continente latinoamericano aveva aperto dei varchi all’azione di proselitismo delle Chiese evangeliche pentecostali, e della loro “teologia della prosperità”. Come sintetizzava Filippo Santoro, "i poveri sui quali [i teologi della liberazione] contavano per un cambiamento rivoluzionario hanno scelto il riscatto capitalista, preferendo abbracciare la teologia della prosperità".
Due ricercatrici brasiliane, Etiane de Souza e Marionilda de Magalhães, hanno individuato il fattore principale del successo della predicazione evangelica nell’idea secondo cui il successo sociale e il benessere personale dipendono da un contratto concluso con Dio. Una predicazione efficace per due ragioni: perché un Dio con cui sia possibile scendere a patti è per forza di cose vicino al fedele e ai suoi problemi quotidiani; e perché la prospettiva di ascesa sociale permette al fedele di sviluppare un sentimento di autostima, liberandolo al tempo stesso dal senso di colpa legato alla sua aspirazione all’arricchimento.
A questo si può aggiungere che la “teologia della prosperità” non avrebbe potuto sedurre centinaia di migliaia di persone se esse non fossero state testimoni oculari dell’ascesa sociale di migliaia di loro, beneficiarie proprio del “riscatto capitalista”, cioè del consistente sviluppo economico dei decenni del boom evangelico (vedi tabella). Beninteso, lo sviluppo ha portato con sé anche sofferenze e incertezze per migliaia d’altre persone; ma i segni dell’aumento del benessere sono sempre più vistosi, soprattutto se si tiene conto che colpiscono una psicologia sociale debordante di speranze e di aspettative, che tende a registrare solo la prova provata che il successo è alla portata di tutti.
Negli anni del desarrollo del subcontinente americano, gli evangelici hanno mietuto successi prevalentemente tra i battezzati non praticanti, trascurati da una Chiesa da un lato troppo istituzionale e dall’altra fatuamente sovversiva. Li hanno così ridestati alla pratica religiosa, senza tuttavia poter garantire quella continuità che solo la macchina organizzativa solida e ben rodata
della Chiesa può offrire: a condizione, però, di abbandonare le rendite di posizione e i sovversivismi, di uscire dalle parrocchie e di “andare al popolo”.
L’ex-presidente della Conferenza episcopale brasiliana (1987-1994) Luciano Mendes, scomparso nel 2006, stabiliva la differenza tra la pratica evangelica e quella cattolica in questi termini: "Noi crediamo di fare un atto molto generoso andando a messa la domenica. Ma gli evangelici fanno proselitismo tre volte al giorno… I nostri fratelli evangelici hanno quadri composti da numerose persone che si sentono parte attiva della comunità, cosa che noi cattolici non abbiamo". La linea “missionaria” era già stata tracciata; da questo punto di vista, la Conferenza di Aparecida costituisce un punto d’arrivo.
Così, poco alla volta, la Chiesa latinoamericana ha cominciato ad occupare – o meglio: a rioccupare – il terreno dissodato dagli evangelici. In un’intervista all’Avvenire del 6 maggio 2007, lo stesso Hummes riconosceva che "gli ultimi sondaggi dicono che il fenomeno [dell’espansione evangelica] ha rallentato".
La “teologia della prosperità” è stata uno dei mezzi di questa reconquista cattolica; ovviamente senza mai dirlo, e anzi condannandola espressamente. In fondo, la concezione del denaro come stercum diaboli resta un retaggio di cui è difficile (e forse anche sciocco, vista la facile presa delle campagne contro la “speculazione finanziaria”) disfarsi. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la persistenza ideologica di quella concezione anticapitalista medievale aveva contribuito alla disconnessione tra Chiesa e masse contadine inurbate all’epoca del boom economico in Francia, Italia, Spagna e altrove.
È proprio nella Spagna degli anni Sessanta, tuttavia, che l’Opus Dei ha cominciato a portar fuori il cattolicesimo da quel vicolo cieco, riabilitando teoricamente e praticamente il profitto. Secondo José Casanova, se il “modello Opus Dei” si fosse imposto anche in America Latina, la Chiesa avrebbe potuto contribuire alla modernizzazione della società, invece di rimanere indietro, assillata dai vecchi demoni anticapitalisti agitati, secondo Casanova, essenzialmente dai gesuiti. Giovanni Paolo II, il primo papa ad aver riconosciuto "la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda" (Centesimus Annus, 1991, sottolineatura sua), è anche stato il papa che ha messo l’Opus Dei sotto la sua protezione personale e i gesuiti sotto tutela.
Da allora, la Chiesa cattolica è molto più a suo agio con la sete di prosperità dei suoi fedeli. Aprendo i lavori della Conferenza di Aparecida, Benedetto XVI aveva affermato che i popoli del continente "anelano, soprattutto, alla pienezza di vita che Cristo ci ha portato"; e, per buona misura, aveva aggiunto una citazione del Vangelo di Giovanni (10,10) che è uno dei leitmotiv dei “teologi della prosperità”: "Io sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza". Anche papa Francesco, nell’Evangelii Gaudium, ha voluto ribadire che l’impegno sociale della Chiesa non si limita all’obiettivo di "assicurare a tutti il cibo" ma esige la "prosperità nei suoi molteplici aspetti".
Quando lo sviluppo economico permette di soddisfare bisogni per i quali in precedenza l’unico ricorso era la preghiera, è molto probabile che le masse si allontanino dalla religione. Ma lo sviluppo economico mette sempre in movimento nuove dinamiche sociali, foriere anche di smarrimento, incertezze, sperequazioni, squilibri e crisi. Le Chiese evangeliche sono una miriade di gruppuscoli religiosi, la maggior parte dei quali costretti nei limiti di un’ortodossia e di un’ortopraxia anguste; la loro teologia della prosperità non contempla né incertezze né rovesci: se il successo è frutto di un patto col Signore, l’insuccesso dipenderà per forza dal mancato rispetto di questo patto.
La Chiesa cattolica ha altra storia, altra stazza, altre ambizioni: la sua teologia della prosperità non può dimenticare chi, da questa prosperità, è escluso. Nel discorso inaugurale alla Conferenza di Aparecida, Benedetto XVI aveva ricordato che la Chiesa «invita tutti a sopprimere le gravi disuguaglianze sociali e le enormi differenze nell’accesso ai beni»; e aveva invitato i vescovi brasiliani a fare «come facevano le prime comunità cristiane»: "la gente povera delle periferie urbane o della campagna ha bisogno di sentire la vicinanza della Chiesa".
La Caritas in veritate, l’enciclica sociale di papa Benedetto, suggeriva un rimedio alla riduzione della spesa pubblica degli Stati in crisi offrendo il supporto della vasta rete delle istituzioni sociali cattoliche. In alcune righe che sembrano scritte da Paul Krugman, Francesco offre il supporto ideologico keynesiano della Chiesa missionaria permanente ad un fronte sindacale disorientato, debole e talvolta inesistente. Anche in questo caso, wishful thinkers progressisti e fearful thinkers conservatori si sono sentiti chiamati in causa, gli uni e gli altri fuorviati dalla comune convinzione – assai alla moda ma assai sbagliata – che la sola incarnazione possibile del capitalismo sia quella liberista.
I leader religiosi sono sufficientemente materialisti per sapere che la capacità di interpretare la psicologia sociale delle masse, cioè le loro rivendicazioni e aspettative, è una delle ricette per ridurne le distanze dalla religione nelle società secolarizzate. Ma non è sufficiente, se la prospettiva rimane esclusivamente individuale: "Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo", afferma Francesco nella sua intervista alla Civiltà cattolica. Facendo da apripista alla nuova “pastorale missionaria” della Chiesa, i movimenti carismatici e pentecostali hanno mostrato che il potere d’attrazione è tanto più forte quanto più il popolo a cui si chiede d’appartenere si mostra gioioso e ottimista, non assillato dal peccato e dalla punizione. "Un evangelizzatore – scrive Francesco – non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale". La Conferenza di Aparecida era stata chiara: "Speriamo in una nuova Pentecoste che ci liberi dalla fatica, dalla delusione, una venuta dello Spirito che rinnovi la nostra gioia e la nostra speranza" (§362).
Oltre che dalle “scorie pacelliane”, dunque, i vescovi latinoamericani invitavano a liberarsi anche di certe “scorie agostiniane”. Wojtyła e Ratzinger sono stati profondamente agostiniani, marcati come erano non soltanto da una particolare formazione teologica, ma da una particolarissima esperienza pratica: la Seconda Guerra mondiale. Il papa polacco e il papa tedesco erano intrisi di una tragicità immanente per aver assistito dalle primissime logge ad una delle più mostruose carneficine dell’umanità moderna. E un credente che è chiamato a dar conto ad un altro credente di tanto orrore non può che ricorrere all’apocalittica immanenza del peccato.
José Mario Bergoglio è anche il primo papa a non aver direttamente conosciuto la guerra mondiale. Ecco perché per lui, come per la maggior parte dei suoi colleghi latinoamericani, è più facile ribaltare il punto focale della predicazione missionaria, spostandola dal senso del peccato all’aspirazione alla gioia. Questa parola, citata 67 volte nel documento di Aparecida (una volta ogni otto paragrafi), è presente 104 volte nell’Evangelii Gaudium (una ogni tre paragrafi).
La “svolta carismatica” impressa dall’esperienza latinoamericana si appunta su quelli che vengono chiamati i “frutti dello Spirito”: gioia, misericordia, amore, pace, benevolenza, bontà, mitezza. Una vera e propria invasione di campo nella pastorale evangelica.
Il papa ha introdotto nel linguaggio ecclesiastico il verbo primerear, tratto dal gergo dei portuali di Buenos Aires; Jorge Milia, ex-studente e confidente di Bergoglio, spiega che primerear «non è mai stato un neologismo virtuoso in quanto implicava “fregare” l’altro, prendere l’iniziativa prima dell’altro o prima che l’altro se ne renda conto». E prosegue: "C’è un detto molto popolare nel Rio de la Plata: 'chi picchia per primo, picchia due volte' ".
La Chiesa fatta non di «funzionari o chierici di Stato», ma "capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente" ha l’ambizione di primerear, di “fregare” i suoi avversari. Da quel che è dato di capire, l’obiettivo non è tanto di riportare a casa le pecorelle smarritesi negli ovili evangelici, quanto di contendere a questi ultimi il ritorno alla pratica religiosa dei battezzati. Non dimentichiamo che, secondo certe stime, in trent’anni gli evangelici sarebbero aumentati in Brasile del 66,6%, mentre gli atei e gli agnostici sarebbero cresciuti in una forbice compresa, a seconda delle fonti, tra il 78,4 e il 90,4%.
Andrea Riccardi affermava un anno fa che José Mario Bergoglio è "quasi un papa panamericano". È una considerazione particolarmente acuta, che Riccardi fondava sull’esperienza pastorale specifica di Bergoglio e sullo schieramento creatosi in sede di conclave.
Ci permettiamo di corredare quell’osservazione con una postilla politica. L’integrazione cattolica del continente americano (nord anglosassone e sud latino) è molto più avanzata della sua integrazione economica o politica; e questo è dovuto soprattutto ai massicci movimenti migratori. Certo, i latinos che emigrano al nord, incontrano una realtà sociale molto diversa da quella d’origine; ma lo stesso accade quando emigrano dalle campagne alle città all’interno dei loro paesi d’origine. Una volta concluso il periplo migratorio, la lingua e la religione sono le stesse al nord e al sud, così come, molto spesso, la collocazione sociale degli ex campesinos inurbati: nei gradini più bassi. Non è un caso, quindi, che anche le esperienze religiose di destinazione siano molto simili: le percentuali di immigrati latinos negli Stati Uniti che “passano” agli evangelici sono quasi le stesse degli immigrati latinos all’interno del loro paese o trasferitisi da un paese latino a un altro. La ricetta della “Chiesa in uscita”, dello “stato missionario permanente” è dunque, innanzitutto, una ricetta “panamericana”.
Ma se questa ricetta funziona nel nord e nel sud del continente americano, come pare, non vi è alcuna ragione perché non funzioni nel resto del mondo. Tanto più che funziona addirittura meglio nel nord, dove la Chiesa non aveva l’handicap di partenza di essere, come nel sud, istituzionale, cioè imbolsita da secoli di privilegi e di rendite di posizione. Negli Stati Uniti, il peso politico dei cattolici è enormemente superiore al peso della loro comunità sull’insieme della popolazione (tra il 25 e il 30%): al momento del varo della seconda amministrazione Obama (febbraio 2013) erano cattolici il vice-presidente, il capogabinetto del presidente, metà dell’amministrazione (tra cui il segretario di Stato), lo speaker della Camera, il consigliere alla sicurezza nazionale, il direttore della CIA e il capo di stato maggiore; senza contare sei giudici della Corte suprema su nove. Non è implausibile che i candidati cattolici per le presidenziali del 2016 saranno numerosi, in un partito come nell’altro.
(Si noti, fra parentesi, che nessun evangelico eminente occupa posizioni politiche di rilievo negli Stati Uniti; non solo, ma il "movimento sta perdendo terreno", e "la maggioranza dei giovani cresciuti in ambiente evangelico sta abbandonando la Chiesa e, spesso, anche la fede", come scrive il pastore evangelico John S. Dickerson).
Affinché i cattolici godano di un così ampio prestigio politico in un paese che, nominalmente, è ancora protestante, occorrono delle condizioni che i cattolici da soli non possono creare, pur avendo alle spalle l’istituzione più antica, più estesa e più radicata del mondo. Nei momenti di instabilità e di mutamento come quello che stiamo vivendo, le religioni offrono più che in altri momenti un senso di stabilità e di ancoraggio alle tradizioni che si rivela particolarmente utile. Questo vale per gli individui, ma vale anche per le forze politiche e per gli Stati. Quanto più la religione è solida e influente, tanto più potrà assolvere questo compito. E quanto più un individuo, una forza politica o uno Stato avvertono gli scossoni dell’instabilità e del mutamento, tanto più saranno pronti ad appoggiarsi alla religione. La ragione della singolare love story tra politica americana e cattolicesimo risiede probabilmente proprio nel fatto che gli Stati Uniti sono il paese che ha oggi più da perdere dagli scossoni dello shift of power in corso.
Ma se le incertezze che attraversano la prima potenza mondiale sono di natura esistenziale, questo non significa che nelle altri parti del mondo dominino stabilità e tranquillità. Anzi. La Cina, per esempio, nei decenni della sua impetuosa crescita ha incubato tutti gli ingredienti di una grande crisi sociale. La Cina è anche uno dei paesi al mondo con la più forte crescita di gruppi e Chiese evangeliche. La Cina è anche il paese che i gesuiti hanno quasi convertito alla fede di Roma, cinque secoli orsono, prima di essere richiamati alla base proprio da Roma.
Insomma, l’esperienza panamericana è fatta per essere esportata e universalizzata. È fatta per diventare la “forma politica finalmente scoperta” della nuova evangelizzazione.
Abbiamo iniziato questo articolo appellandoci alla prudenza mandarina di Zhou Enlai. Per quanto ci siamo lasciati andare a qualche ipotesi più impegnativa, vorremmo ribadirlo in conclusione: è ancora troppo presto per esprimersi sulla direzione politica che José Mario Bergoglio intende dare al suo pontificato.
Quello che ci sentiamo di dire, invece, è che un papa non è (quasi) mai quello che appare. "Non tutto ciò che potrà essere stato utile, anzi unicamente efficace nei secoli andati, torna oggi possibile restituire allo stesso modo", scriveva Pio X in un’enciclica del 1905. A detta di Gianpaolo Romanato, Pio X fu "un ciclone riformatore che modificò profondamente la Chiesa, attrezzandola in vista dei problemi che si sarebbero posti dopo la guerra". Molti, secondo Romanato, i tratti comuni con Francesco: "le umili origini, la provenienza periferica rispetto a Roma, l’estraneità all’ambiente curiale, l’insofferenza per il trionfalismo ecclesiastico, il tratto diretto e immediato, lo stile di vita sobrio e dimesso, l’interpretazione più pastorale che magisteriale del ruolo petrino". Né queste caratteristiche, né le sue "riforme di struttura, che seppellirono definitivamente la Chiesa d’ancien regime" hanno tuttavia fatto di papa Sarto un pontefice progressista; anzi, egli è passato alla storia come il papa più reazionario del XX secolo, al punto di diventare ispiratore ed eponimo della Fraternità di monsignor Lefebvre.
Incasellare i papi dentro gli schemi politici mondani è impresa vana. Ancora oggi si trova traccia di quei funambolismi capziosi che facevano di Karol Wojtyła un pontefice “di sinistra” sulle questioni sociali, e “di destra” sulle questioni morali. Un papa non è né per la sinistra né per la destra. Un papa è per la Chiesa. Per secoli, i gesuiti sono stati vincolati ad obbedire al papa e alla Chiesa perinde ac cadaver. Si può dunque ben immaginare cosa possa voler dire un papa gesuita alla testa della Chiesa.
Questo articolo è stato scritto per l'ultimo numero della rivista di Geopolitca Limes. Ringraziamo il Direttore Lucio Caracciolo per la gentile concessione.
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