Il 24 ottobre 1613, quattrocento anni fa, da Sendai, nord del Giappone, muove una delegazione di dignitari e diplomatici, assistiti da militi, famigli, e da una ventina tra spagnoli e portoghesi. Sono in centottanta e devono, su incarico del locale daimyo Date Masamune, raggiungere il papa a Roma per consegnare al cattolicesimo le isole nipponiche in cambio di appoggio spirituale, finanziamento e armi per la presa del potere contro altri contendenti. La missione è guidata dal samurai Hasekura Tsumenaga. Il viaggio è lungo e faticoso. La nave, allestita per l’occasione, percorre Pacifico e Atlantico, toccando Messico e Spagna, puntando poi su Genova e Civitavecchia.
Hasekura sbarca ad Acapulco dopo tre mesi di traversata, ed è ricevuto con grandi onori. Quando riparte in giugno da Veracruz, lascia a terra la gran parte del personale asiatico, prevedendo di riprenderlo sulla via del ritorno. Sbarca sulle coste ispaniche ed entra a Siviglia in ottobre, incontrando Filippo III nel gennaio 1615 e facendosi battezzare dal suo cappellano con il nome di Felipe Francisco. Costretto dal cattivo tempo a Saint Tropez, sulle coste mediterranee francesi, giunge a Roma con soli ventotto uomini, e quando a novembre si presenta a papa Paolo V, mostra il volto emaciato e stanco di chi ha affrontato pericoli e fatiche di ogni genere. Consegna una lettera bordata in oro, col sigillo del suo feudatario, tuttora conservata in Vaticano, proponendo con il titolo di ambasciatore, l’invio di missionari cattolici in Giappone e un trattato commerciale nippo-messicano. Ricevuto solennemente al Quirinale per la verifica delle credenziali (nella sala dei Corazzieri lo ritrae tuttora un affresco d’epoca), è nominato cittadino romano dal senato, ma mentre il papa consente all’invio di missionari, lascia al re di Spagna la decisione sul trattato commerciale.
Hasekura parte in gennaio. In Spagna gli rifiutano l’apertura sul Messico per non contrariare l’imperatore del Giappone, che ha iniziato ad espellere i missionari e a perseguitare i cristiani. Dopo due anni, Hasekura, via Filippine, rientra in patria, dove muore nell’agosto 1622. Suoi uomini hanno preferito restare in un villaggio vicino Siviglia, e i loro discendenti si riconoscono oggi anche per il nome che portano, Japón. La casa imperiale cancellerà le relazioni commerciali con la Spagna nel 1623, consegnando le isole nipponiche al periodo di isolazionismo Sakoku.
La missione di Hasekura è rimasta ben presente ai giapponesi, tanto che ad inizio del nuovo millennio organizzarono, in accordo con l’Italia, un’importante mostra al museo Ishinomaki, esponendo anche i due ritratti dell’ambasciatore conservati a Roma, uno in originale. Il Giappone guarda alla vicenda come alla preziosa testimonianza dell’ambivalenza eterna del rapporto tra Oriente e Occidente. Molti gli elementi storici che conservano validità: l’uso di potenze straniere in funzione di lotta per il potere, la commistione tra religione e politica, la forza del soglio pontificio, il conflitto tra interessi economici e politici. A bilancio, il viaggio di Hasekura ebbe risultati persino opposti a quelli auspicati, visto che le isole nipponiche entrarono, anche in conseguenza di quei fatti, nel lungo periodo di isolazionismo che solo il Commodore Matthew Perry, su ordine del presidente Millard Fillmore, avrebbe risolto a metà ottocento entrando con le sue pesanti navi nella rada di Tokjo, allora Edo. Tuttavia non si può non stupire di fronte al coraggio personale e al desiderio di conoscenza e universalismo di quegli uomini che varcarono due oceani per venire a cercare fede e appoggio nel papa di Roma.
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