Sarò sincero: le manifestazioni organizzate per il Columbus Day mi mettono un po’ di tristezza mescolata ad una certa noia. E’ questo il sentimento diffuso – i sociologi parlerebbero di immaginario sociale – che l’evento sembra suscitare anche ad un lettore, ascoltatore piuttosto attento dei fenomeni che riguardano la cultura italiana fuori dalla penisola.
Mi ricordano manifestazioni come il festival di San Remo, il concerto del primo dell'anno, il discorso del Presidente della Repubblica la sera dell’ultimo dell’anno, per non parlare della parata del 2 giugno per la festa della Repubblica italiana, ecc… . Sanno di vecchio, odorano di muffa, di cose già dette, di gesti e azioni ripetute, di riti da riavvolgere ogni volta come un nastro perché cosi è e così le persone si aspettano che sia. Sono consapevole dell’importanza dei riti: danno ordine, consolidano l’appartenenza, rassicurano. C’è una sociologia e una letteratura che da secoli si occupa di questo, ma a volte bisogna aver la forza e l’intelligenza di non continuare ad essere sempre uguali a se stessi. Ah… le abitudini, come è difficile cambiarle.
Ripeto parlo da osservatore e potrò essere smentito, ma mi sembra che il Columbus Day sia il festival delle bandierine, del tricolore, degli inni, delle divise, delle immagini. Mancava la nazionale di calcio ed eravamo a posto. In Italia il tricolore sbandierato diffusamente nelle strade si vide per la prima volta subito dopo la vittoria dell’Italia contro la Germania nella storica semifinale in Messico nel 1970. Più di cento anni dopo l’Unità d’Italia.
In altre parole appare come la festa dell’amicizia degli Stati nazione: Usa e Italia. Certo, niente di male in tutto questo. Anzi ben vengano le rappresentazioni che intendono celebrare l’importanza della presenza italiana negli Stati Uniti. Ma per cortesia non stiamo lì a contare le gocce di sangue italiano dentro di ognuno per definirsi un po’ italiano, oppure per essere fieramente quel trattino tra italo e americano. Le culture si mescolano, come gli essere umani. Da sempre. Sarebbe meglio raccontare queste mescolanze piuttosto che le distinzioni. Ma questa è opinione del tutto personale.
E poi mi viene da pensare: cosa penserebbe Colombo di tutto questo? Lui cercava il globale, il mondo nella sua sferica forma. Non immaginava un mondo diviso in Stati nazioni a volte amici, altre volte nemici. Non pensava neanche se stesso come italiano. Era genovese e suddito del Regno di Castiglia, molto più vicino culturalmente ad un francese che ad un siciliano. Lo consideriamo italiano, quando ancora l’Italia era una chimera per pochi letterati “visionari”, perché nato nel territorio odierno italiano. Una sorta di ius soli valido nel tempo. D’altra parte non possiamo chiedere a Colombo quanto si sentisse italiano, nel senso che in questa rubrica lo abbiamo più volte descritto, cioè cittadino di uno Stato moderno che concede diritti e richiede doveri e ti identifica, appunto, con una carta d’identità. L’Italia, così com’è oggi, rappresentava un mondo cognitivamente impensabile. Doveva ancora farsi. Essa era divisa in staterelli, ognuno con il suo senso di appartenenza, la propria visione del mondo, il proprio stile di vita. Colombo era uomo di mare e mercante, dedito quindi, per “natura sociale”, ad oltrepassare gli orizzonti, ad immaginare mondi possibili e magari anche impossibili.
Fu proprio questa sua immaginazione a portarlo a scoprire il nuovo mondo. Colombo nella sua complessità racconta un modo di essere italico, cioè un attitudine che mescola locale (la sua origine marittima mercantile genovese) e globale (più globale di lui non saprei chi ci possa essere). Se il Columbus Day rievoca un evento che ha modificato la storia del mondo mettendo in moto un meccanismo che ha dato vita ad incontro, spesso scontro, di culture allora il tutto diventa più intrigante. Ma se deve essere un semplice rito collettivo istituzionalizzato, irrigidito nel quadro del protocollo statale tra bandierine, inni, bande dei carabinieri, presenze politiche che dicono tutte le volte le stesse cose: “l’importanza della festa, del ruolo degli italoamericani negli States e di lavorare insieme per fare si che l’America continui ad essere un paese di opportunità”, allora quel tedio mi sale.
Gli Stati nazioni sono comunità immaginate, come ci ricorda Benedict Anderson. Sono costruzioni degli uomini esclusivamente sociali e non è detto che siano valide per sempre. Non esistono in natura, come l’acqua, gli alberi, gli animali.
Il mio Columbus Day l’avrei passato ritornando a vedere gli italiani/italici esposti al Metropolitan, qualche spettacolo o mostra suggeriti da La VOCE di NY, magari una visita a Eataly, riguardandomi la sera C’era una volta in America di Sergio Leone, soffermandomi rapito dalle meravigliose note di Ennio Morricone del Debora’s Theme. Prima di addormentarmi una lettura di qualche massima di Colombo, e magari con queste parole in testa avrei spento la luce: “E il mare concederà ad ogni uomo nuove speranze come il sonno porta i sogni”.
Ah…Ma questo è il Columbus Day di un italico.