Oggi inizia il mese santo dell’islam, quello del pellegrinaggio, Haji, voluto da Maometto. Due milioni di fedeli (un milione e mezzo dall’estero), nell’ultimo mese dell’anno islamico si accosteranno alla pietra nera, il meteorite dalle dimensioni di un pallone, incastonato nella santa Kaaba di La Mecca, in Arabia Saudita. La Corte Suprema, controllato l’apparire della luna crescente, ha dichiarato per domani il giorno di Arafat, quando i pellegrini si raccolgono in preghiera sulla collinetta in granito prossima a La Mecca, nella data più significativa dell’Haji. Poi toccherà al giorno di Al-Adha, con lo sgozzamento rituale di montoni e agnelli, una cerimonia che quest’anno si avvale dell’apporto di mattatoi messi su con l’assistenza tecnologica tedesca.
Vivere da dentro queste giornate significa condividere, nel paese sunnita di più stretta osservanza, un clima che oscilla tra religiosità e fanatismo, sottolineato dall’ossessiva ripresa da parte della televisione di stato, dell’ininterrotto flusso rituale dei pellegrini a La Mecca, 24 ore su 24. Lo stato saudita governa, attraverso un apposito ministero e un’oculata politica dei permessi di ingresso, un fenomeno che per molti aspetti sfugge alle intrinseche caratteristiche religiose per assumere connotati socio-culturali, economici, e anche politici.
La situazione del Mataf, il deambulatorio circolare dove i pellegrini sono instradati per girare a turno intorno alla pietra sacra, può essere presa a simbolo di come la monarchia saudita gestisca il suo potere politico e religioso. Da anni il meccanismo di accessi e visti fa scendere il numero dei pellegrini; si andrà avanti così ancora per un biennio, sin quando la capienza del Mataf non sarà passata, dagli attuali 48.000 a 130.000 pellegrini orari. I lavori, in corso anche in altre parti del complesso della Grande Moschea della Mecca, consentiranno la simultanea accoglienza di due milioni di fedeli. La famiglia regnante mostra non solo all’Arabia ma all’intero mondo sunnita che è padrona assoluta dei luoghi religiosi della Mecca. Si pensi a cosa significhi il controllo di Gerusalemme per gli israeliani, rispetto alle rivendicazioni palestinesi, e si percepisce la dimensione politica del possesso saudita sul più santo luogo dell’islam.
La questione si pone con forte rilevanza di politica regionale, nel rapporto che la sunna mantiene con l’altra componente, minoritaria, dell’islam, la shia, rappresentata in particolare da chi è al potere in Iran. I giornali sauditi ospitano con regolarità articoli non certo amichevoli nei confronti degli ayatollah di Teheran, e hanno aumentato il tiro da quando la crisi siriana ha reso evidente la capacità di penetrazione che la shia iraniana sta avendo nelle crepe del regime di Assad, anche via Libano (il partito di Dio di Hezbollah). L’Arabia Saudita è arrivata a cancellare, la scorsa settimana, il suo discorso alle Nazioni Unite, come protesta per lo stallo siriano. La prevedibile dotazione nucleare del potente vicino, costituisce un’altra fonte di preoccupazione. Su ambedue le questioni, non si maschera l’irritazione per le scelte della presidenza Obama, ritenuta inadeguata rispetto ad eventi che stanno cambiando radicalmente i rapporti di forza in Medio Oriente e nel Golfo.
Non fidandosi come un tempo di Washington, la monarchia saudita preferisce curare in proprio i rapporti con l’Iran e accetta a breve la visita del nuovo presidente Hasan Rowhani, comunque assente dai riti di Haji. La notizia è stata diffusa in Iran e raccolta senza enfasi dalla stampa di qui. Purché si faccia: darebbe un segnale di dialogo in un momento di tensioni.