Gli occhi di chi c'è l'ha fatta. Le bare allineate una dietro l'altra dentro un hangar. Le urla di disperazione. Le salme tirate fuori dal mare. I racconti di chi è andato e sta andando a prenderle sott'acqua. La vicinanza a terra del luogo della tragedia. I migranti costretti a vivere con dei materassi a terra sotto gli alberi.
Tornare a Lampedusa non è stato per niente semplice, dopo averla vissuta così intensamente durante la cosiddetta emergenza Nordafrica di due anni fa. Ai tempi della “collina della vergogna” tutto era difficile e inaccettabile. Anche all'epoca il dramma del barcone rovesciatosi molto probabilmente in acque maltesi. L'arrivo dei superstiti. Quel “mare di teste” che piano piano si inabissava nel mare, come raccontato anche allora dai soccorritori. Dopo il 2011 però l'idea era quella che situazioni del genere non sarebbero dovute più capitare. Niente di più sbagliato.
Quando sono salito in aereo venerdì scorso, a 24 ore dalla più grande tragedia delle migrazioni (visibile ai nostri occhi), il sentimento di rabbia era molto forte. Dopo quattro giorni sull'isola, se possibile, è anche peggio. La verità è che il “sistema” non ha imparato nulla dal passato e dagli errori commessi. In un'Europa a cui viene consegnato il Nobel per la Pace, si pensa solamente a chiudersi sempre più, relegando la questione dei flussi migratori a un argomento di secondo piano, come se il mar Mediterraneo non fosse prima di tutto la frontiera sud dell'Unione europea. In Italia, manca un vero e proprio piano di accoglienza, si rincorre sempre l'emergenza e oggi Lampedusa è ancora un luogo dove i migranti passano troppo tempo, anche alcune settimane, in una condizione di accoglienza non accettabile.
E' servita una tragedia per parlare di tutto questo, eppure erano già più di 500 i migranti fermi sull'isola da troppo tempo. C'è voluta una tragedia per riparlare dei migranti, della specificità italiana del “search and rescue” in mare e di un'isola, quella di Lampedusa, che deve rimanere solo un punto di accesso sicuro al continente per tutti quelli che hanno bisogno e che rischiano la propria vita in mare.
Qui da noi, purtroppo, c'è bisogno di un dramma o di un emergenza per affrontare una questione, sperando che questa volta però si impari dagli errori del passato per evitarli in futuro. Certo, nessuno ha la bacchetta magica: la questione è complessa. Ma bisogna iniziare dalla programmazione, dalla pressione in seno all'Europa, dalla richiesta di normative comuni e anche da un dibattito serio su alcune leggi da cambiare. Senza dimenticare però che questi flussi migratori sono fatti in gran parte da persone che hanno negli occhi, nella testa e nelle orecchie, le immagini e i suoni della guerra con il suo carico di morte, persone che hanno vissuto torture e privazioni delle dittature o dei regimi più duri, persone in poche parole che hanno bisogno di protezione umanitaria. C'è bisogno di corridoi umanitari per venire in Europa, ma anche di accesso umanitario garantito nei luoghi di crisi e di conflitto: anche su questo l'Ue può e deve fare molto a livello di pressione internazionale.
Bisogna mettersi al lavoro, moltiplicare gli sforzi, ma soprattutto c'è bisogno che le Istituzioni diano delle risposte chiare, magari iniziando subito da trasferimenti più veloci da Lampedusa verso gli altri centri di accoglienza. Sull'isola si lavora con il supporto psicologico ai sopravvissuti, la Croce Rossa ha attivato una mail (lampedusa@familylink.cri.it) e un numero di telefono (0039.06.47592725) per le famiglie in circa dei propri cari, vivi o che non ci sono più.
Oltre 230 morti, meritano rispetto, oltre le parole, vengano i fatti: senza bisogno di un'altra emergenza o peggio di un'altra tragedia come questa.
Twitter: @TDellaLonga