Si può essere ipocriti o confusi. Ma non è detto sia facile distinguere. Anzi.
Nell’Ottobre 2006, fu pubblicato negli Stati Uniti un libro, intitolato The Audacity of Hope. Nel giro di qualche settimana salì al primo posto nelle graduatorie del New York Times e di Amazon. Era successo che Oprah Winfrey aveva pronunciato il suo celebre endorsement in favore di chi l’aveva scritto. Decollarono le vendite e, con le vendite del suo libro, anche l’autore: Barak Obama.
Oprah Winfrey, aduna molte qualità: è mitografia afroamericana vivente, donna più ricca del mondo (o giù di lì), conduttrice dell’omonimo “regale” e “storico” talk show, filantropa munificissima, effige dei Diritti Umani. Nel secondo capitolo di quel libro, Obama si esprimeva limpidamente in favore della pena di morte. Limpidamente e coerentemente, giacchè lanciato a diventare Mr President, e quindi anche Comandante in capo dell’esercito più potente della Terra, col togliere la vita e dare la morte avrebbe dovuto acquisire una certa dimestichezza. Sicchè, tanto valeva, portarsi avanti col lavoro.
Ma Oprah? I Diritti Umani? L’aveva letto Oprah quel libro? Si deve supporre di sì, dal momento che fu il libro-lancio del suo pupillo. Magari sulla pena di morte poteva aver cambiato idea. Ma non risulta.
Il problema è molto più serio della coerenza spendibile nello showbiz da una o più superstar. Problema serio e incalzante, come dimostrano due notizie apparentemente distanti fra loro: la condanna all’impiccagione per i quattro responsabili dello stupro e dell’omicidio di una ragazza su un’autobus a Nuova Delhi e la raccolta di 65.000 firme, ad opera dell’associazione “Luca Coscioni”, per l’introduzione in Italia dell’eutanasia. Il problema è il rapporto dell’uomo contemporaneo con la morte. E, poiché l’uomo contemporaneo è l’Oggetto della comunicazione planetaria, la coerenza di persone come Oprah è molto più importante di quanto forse meriterebbero.
Ora, a proposito di ipocriti o confusi, è facile immaginare che la gran parte di coloro che si dicono contro la pena di morte siano anche a favore dell’eutanasia; come è probabile che chi è contro l’eutanasia possa riservarsi uno o più spiragli verso la morte come pena legale. Sono certamente ipotesi tagliate sul banco del salumiere, ma rendono l’idea. Ma se anche non valesse la reciproca, e i contrari all’eutanasia fossero tali anche verso ogni forma di morte legalmente data (sanzione giudiziaria, guerra deliberata), rimarrebbe da spiegare come si possa distinguere fra eutanasia e pena di morte.
Saltiamo a piè pari le repliche note. In un caso non c’è una vita che viene interrotta, nell’altro sì. Le saltiamo perché, come si vede, sono repliche che non replicano. Giacchè spostano solo i termini della questione. E cosa o chi definisce la vita?
Forse un inizio di risposta si potrebbe cercare in direzione contraria. In direzione di una rinnovata familiarità con l’idea di morte. La difficoltà è che la morte è stata resa un tabù, per l’azione di due fondamentali spinte, apparentemente autonome.
Da un alto, la fluidità del tempo contemporaneo, dei suoi ritmi accelerati, del suo incessante replicarsi, a grandissime linee funzionale all’etica dei consumi (etica, come modo d’essere), che richiedono un ambiente psicologico senza punti fermi, quali che siano, a partire dai quali misurare: l’utilità, la dimensione, il peso di ogni cosa. La misura è il buco nero da evitare. E la misura delle misure è la morte.
Dall’altro, un ottimismo umanitario decadente ha finito con l’imporre la tanatofobia come caricatura della vita. Un antropocentrismo sorridente ha sostituito quell’idea con procedure asettiche, entro cui sigillare quell’ombra fastidiosa: procedure mediche, tecnico-ingegneristiche, per cui la morte non può che essere un errore umano o giuridiche, per farne oggetto di un “programma umanitario”. Per millenni il vero rispetto della vita è stato scandito dall’accettazione della sua grandezza tragica. Francesco (d’Assisi) cantava: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale”, dove la pietà esaltava l’urto di vita e morte, non disconoscendone la forza tragica, ma fecondandone lo slancio ultraterreno.
Letteralmente i “Diritti Umani” costituiscono una de-riva, dal latino “de rivo”, “via dal fiume”, cioè un allontanamento da un corso noto. Il corso noto era la morte non-tabù, quella che si imparava a conoscere sin da piccoli, introdotta nella vita di ognuno da un metabolismo di segni e significati che una pratica dolente e sapiente semplificava in immagini di una mitologia veridica, religiosa (viatico per la vita ultraterrena) o laica (scintilla per la gloria eterna) che fosse.
Nessuno rimpiange la mortalità infantile e tutto il corredo di accadimenti che rendevano possibile questa familiarità con la morte. Semmai ci si può chiedere se possiamo dirci consapevoli di quale sia la verità nascosta del presente ottimismo decadente: in centinaia di migliaia di morti ed in concerti per la pace, agenzie internazionali, maitre à penser.
Solo riaprendo la vita alla morte si potrà degnamente misurare il potere dell’uomo sulla morte, e guardare alla morte come via per la vita.
Altrimenti resteremo solo confusi o mediamente e allegramente tutti un po’ ipocriti.