"Non si vive solo di spaghetti”. No, non è uno slogan ad effetto di qualche gastronomo, nemmeno di un giornalista, e neppure di un politico dediti ad una dieta variegata. Si tratta di una scritta, lasciata su di un muro a Scampia, nei pressi di Napoli.
Luogo tristemente celebre per la camorra, le immagini di degrado delle Vele”(le abitazioni popolari), l’emarginazione, i suoni minacciosi di urla e spari. E’ una scritta che rimanda invece ad un bisogno di cultura, proprio da un luogo dove la cultura, almeno quella più alta, nei suoi significati che brevemente accenneremo, non è nemmeno parola nominata. Estromessa da un mondo che al massimo riconosce solo forme di “cultura” criminale. Eppure, quanto scritto beffardamente su quel muro, altro non è che una risposta a quanti sostengono, o magari lo fanno passare sommessamente, che la cultura non sia così importante. Che in tempi di crisi, la cultura non sfama.
Tuttavia, quello che qui vorremo provare a descrivere, partendo da una premessa curiosa e perlomeno giornalistica, è uno sguardo sul tema della cultura, riassumendone i significati che nel corso della storia ha assunto ed in particolare, valorizzando quella che è la cultura italiana o meglio italica.
Sappiamo bene che Cultura, in latino, significa “coltivazione della terra”. Tale termine, nell’accezione di cura, è presto adottato nell’ambito religioso e sacro, il culto, ed anche in quello più “umano”, legato ad eventi mondani. Cioè cultura come formazione individuale, apprendimento, conoscenza, educazione. In Grecia è la paideia, da pàis, paidòs “ragazzo”, la “coltivazione umana” come forma di armonia con il sé e con il mondo intorno. Una forma che va trasmessa nel corso del tempo, connessa con la vita sociale, attraverso lo svolgimento di pratiche per il corpo (la ginnastica) e per l’animo (la letteratura, la filosofia, la retorica). Allo stesso modo i latini la chiamano humanitas, Cicerone parla di cultura animi.
Per tutto il periodo medioevale, ed anche quello rinascimentale, fino alle prime interpretazione di natura illuminista, la cultura assume mutamenti di significato secondo i cambiamenti culturali del tempo. Cultura come salvezza dell’anima oppure erudizione personale, la fanno da padrone. La cultura, con le necessarie semplificazioni, si costruisce sempre più nell’opposizione dialogica tra colti e non colti, tra salvi e non salvi, tra eruditi e ignoranti, tra forme di accessibilità alla cultura e di emarginazione, tra uomini liberi e uomini servi. Perché la cultura, sempre più scritta, si concentra negli alfabetizzati e quindi negli uomini “liberi”, per diritto o dai bisogni primari. La cultura diventa elitaria. Gli intellettuali costruiscono la loro fama e il loro ceto come gruppo di stimolo e di consulto alla vita politica e quindi assumono potere e status. Non solo fascinazione e seduzione retorica di memoria classica, ma anche potere reale, come molti intellettuali hanno dimostrato nel corso dei secoli. Quindi cultura alta, da non confondersi con i volgari, i rozzi, gli incolti, quelli della cultura bassa, cioè inesistente.
Il percorso della modernità, dettato dalle teorie illuministe, apre il campo a nuove interpretazioni. In particolare con Voltaire, ma non solo, il concetto di cultura si ampia per includere modus vivendi e di pensiero tipici di un popolo, che si contraddistingue in essi come differente dagli altri. Cioè la cultura diventa non tanto conoscenza, quanto forma di espressione, di attitudine e stile di vita. Si tenta, quindi, di abbattere le barriere dell’erudizione dall’ignoranza nei difficili percorsi della partecipazione democratica di massa nella sfera pubblica. La cultura in questo senso si universalizza e diviene materia di riflessione di tutto il lavoro antropologico dell’800 e del’900. Ogni cultura ha dignità, se riconoscibile non ha più senso sapere se c’è qualcuno che è più avanti o più indietro. La diversità diventa quasi sinonimo di cultura. E’ come un giardino dove si trovano piante diverse. Edward Barnet Tylor, antropologo britannico a cavallo tra XIX e XX secolo sostiene che la cultura non consiste solo delle attività mentali, intellettuali ma piuttosto di qualsiasi capacità ed abitudine acquisita proprio perché si è membri di un corpo collettivo. In questo senso anche l’attività contadina, diviene attività culturale perché propone un saper fare specifico tipico, in grado di trasmettersi. Le forme più estreme di relativismo culturale propongono, in tempi contemporanei, forme culturali che non prevedono, ad esempio, nessuna competenza specifica, addirittura parlando di cultura dell’ozio. Non fare niente è cultura. Al di là di questo il XX secolo si arricchisce soprattutto di nuovi apporti dalla sociologia e dalla psicologia: Parson, Weber, Freud ecc… Le riflessioni sulle nuove civiltà, sul colonialismo, sull’urbanizzazione, sulle grandi migrazioni, sulla modernità, sull’inconscio pongono nuovi problemi e discussioni. Ad esempio, la differenza culturale diventa, dal XIX secolo, motivo scatenante di profonde discriminazioni oppure la massima elevazione dei principi universali e democratici, attraverso la tolleranza ed il riconoscimento reciproco. Una visione altamente complessa che si accresce in tempi post-moderni. Non solo nella direzione di un riconoscimento della diversità, come detto, ma nella costruzione di veri e propri apparati di socializzazione in grado di permettere l’integrazione del singolo in un contesto sociale altamente complesso. Si tratta della trasmissione di cultura con la c maiuscola, ma anche di competenze più specificatamente professionali, e soprattutto conoscenze dei principi ordinatori dell’organizzazione della vita sociale e politica. Processi di socializzazione, quindi, per determinare al tempo stesso: erudizione, competenze, espressione e l’ideale del buon cittadino.
In questa ottica il richiamo a “non si vive solo di spaghetti”, con il quale abbiamo iniziato il testo, non può che essere straordinariamente attuale. E’ il riconoscimento dell’incompletezza della natura umana in sistemi sociali altamente sofisticati e complessi, che esigono conoscenza, capacità di elaborazione, capacità di pensiero. La “nuda vita”, come semplice esistenza biologica, il grado minimo della vita che deriva dal pensare sé stessi come sopravvivenza del proprio corpo, orizzonte unico di vita, è l’imbuto verso la disintegrazione sociale. La cultura, invece, nella sua polisemia, nelle sue forme processuali, perché in movimento, diventa legame sociale, lotta all’indifferenza, agisce sull’individuo e da esso viene alimentata. Non viviamo solo di spaghetti, permettetemi di ripeterlo, perché l’essere umano non può accontentarsi di sopravvivere, ma deve vivere. La consapevolezza dell’incompleta natura umana, in contesti caratterizzati da infinite informazioni, da incertezze, paure, dall’idea che la sola cosa reale e percepibile che ci rimanga di fronte e di fianco sia la “nuda vita”; ci impone l’obbligo di donare cultura.
Il potere, da che mondo e mondo, s’intimorisce innanzi a governati capaci di approfondite esperienze critiche. Preferisce mettere gli intellettuali al soldo e lasciare gran parte della popolazione, con quel minimo che non sia sufficiente a gestire paure ed incertezze, fiduciosa dei dettami propagandistici, perché semplici, diretti e perché le alternative non sono pensabili. Tutto questo assume oggi ancora più rilevanza. La globalizzazione modifica ad una velocità impressionante situazioni sociali, centri di poteri, significati e simboli. Il significato di cultura stessa è stressato continuamente, dalle costruzioni meticce, dagli incontri più o meno forzati, dagli scambi dalle connessioni o deconnessioni legati alle trasformazioni tecnologiche e comunicative incessanti. In questo quadro, dove nelle fisiologiche aperture culturali s’innestano patologiche chiusure conflittuali, rigurgiti nostalgici di incontaminazioni, diffidenza ed indifferenza verso coloro che possono intaccare ordini e gerarchie prestabilite; la cultura deve tornare a giocare il suo ruolo primario.
Ed anche se gran parte di queste idee sono state fondamenta della cultura occidentale, lo sguardo italico, a mio avviso, ha osservato tutti gli angoli. La voce si è alzata da ogni cattedra e pulpito. Non invasioni di eserciti, ma intellettuali, diplomatici, missionari e tanti migranti della prima ora dopo l’unificazione italiana hanno diffuso sapere essere e sapere fare nel globo. Una weltanshauung, concezione del mondo, che non ha barriere, confini, dove “tutto il mondo è paese”, interpretata e narrata da grandi italici non a caso: santi, poeti e navigatori.
L’Italia, allora, ci appare come un grande laboratorio. Certamente causa di conflitti, contrasti, invidie, passioni violente, scontri ma che la renderebbe maestra contemporanea di una condizione che da sempre l’ha caratterizzata: luogo di diversità e che nell’avversità prova a stare insieme, tra universalismi e particolarismi. E’ proprio la fragilità italiana la sua forza, come ci ricorda un padre della sociologia italiana (Ferrarotti). La sua forza è nella persuasione ad una visione del mondo, nella eccellenza del saper essere e del saper fare, combinando in un equilibrio affascinante, quanto mai complesso e a volte poco indagato, immaginazione e pragmatismo, idealismo e realismo, creatività e praticità. Un mix esplosivo e seducente a cavallo tra propositi neo-illuministi e post-romantici, tale da poter emergere a paradigma dei secoli a venire. È la riscossa del soft power quella di cui vogliamo farci promotori, di un’idea che le controversie umane, nonostante l’insita natura conflittuale, possono essere gestite e risolte senza necessariamente ricorrere all’hard power, cioè alla violenza.
In questo senso la cultura italica tiene conto sì degli italiani d’Italia, ma non solo, anche di coloro che sono residenti all’estero, degli oriundi, degli italofili e di coloro che attraverso faticosi processi di socializzazione s’integrano nella cultura che li ospita. La cultura italica può insegnare molto, perché ha un passato glorioso, un passato recente faticoso e magari medita riscatti per un futuro che a molti pare colmo di pericoli. Riprendere la spirale della fiducia non è solo un fatto economico, uscire dalla crisi non vuol dire non ritornarci più; dietro il sipario degli sviluppi globali e commerciali si assestano polverose speranze di natura culturale. Soffiamo sopra e apriamo le tende.
Il lavoro è naturalmente dispendioso proprio perché i processi sono ibridi, e anche le culture risultano tali, sottoposte a modifiche continue che vanno sondate. Rilevando quanto rimane e si sedimenta e quanto invece evapora, scomparendo. Nell’era della società liquida di Bauman, non possiamo far altro che porre le nostre energie di studiosi al servizio della collettività per comprendere ed eventualmente proporre alternative e soluzioni, magari provando a smuovere le acque affinché s’investa in cultura, in formazione, in espressione, cioè s’investa per l’humanitas. Perché sono certo che abbiamo fame sì di spaghetti, ma molto di più ne abbiamo di cultura.