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August 24, 2013
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Chi conosce la verità sulla giustizia? Tutti. Ma è meglio (e proficuo) non dirlo

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Manifestanti in attesa della sentenza della Corte di Cassazione per il Processo Mediaset che ha condannato Silvio Berlusconi

Manifestanti in attesa della sentenza della Corte di Cassazione per il Processo Mediaset che ha condannato Silvio Berlusconi

Time: 4 mins read

Al punto in cui siamo, con la sentenza Mediaset definitiva, la decadenza senatoriale, il governo traballante (non esattamente un inedito), forse ci si deve porre una domanda impertinente. Ma siamo sicuri che, sul tema della giustizia penale, “l'Italia che legge Repubblica” (e, a giorni alterni, Il Corriere della sera, La Stampa e Il Sole 24 Ore) non sappia come stiano realmente le cose? E che sia solo un eccesso di sedicente furore civico a velare lo sguardo? Che costoro avrebbero a cuore la giurisdizione, cioè l'ipofisi di ogni sistema democratico; e che però, costretti dalla perenne assenza di una “destra europea” o “moderata” o “moderna”, e, altrettanto perennemente, di una “vera opposizione” o di “una opposizione senza inciuci” (le raffinatezze lessicali a quelle latitudini sono il minimo), e via formulando, si siano dovuti aggrappare al rigore di pochi eroici volenterosi, i “giudici supplenti”, anche correndo il rischio di eccedere la misura?

No, perchè se uno sente l'italiano di alcuni noti magistrati o ex magistrati, quello mutilato di Esposito, quello abortito di Di Pietro, quello tubercolotico di Ingroia, quello litaniante della Boccassini e quello neomelodico di De Magistris; se uno osserva l'austerità dopolavoristica mostrata dal primo nella nota intervista, la camaleontica ambiguità levatrice e nutrice e maestra e compagna di vita del secondo, la protervia balbettante che ha svelato il terzo, l'impettita stizzosità della quarta e la maschera fissamente esorcistica del quinto, viene preso dal dubbio che quei lettori sappiano fin troppo bene come stanno realmente le cose. E che gli piaccia. Che gli sia sempre piaciuto. Sin da quando il loro giornale dava del “guitto” a Giovanni Falcone (1991, copyright Sandro Viola).

Che gli piaccia la violenza sopraffattrice che il potere di incarcerare assicura al sommo grado. Che gli piaccia l'atmosfera plumbea, la minaccia malignamente insufflata dal patibolo sulla comunità. Che gli piaccia la condizione di assoggettamento, il potenziale liquidatorio, la parola solo come ingiuria. Che gli piaccia la sfacciata e proterva esibizione di deroghe, di discriminazioni, di raccomandazioni a cui il potere giudiziario "egemone" ha da secoli legato il suo nome. Beninteso, sempre che riguardi gli altri.

Solo che, in astratto, si potrebbe anche pensare ad una passione politica degenerata, ad una virtù che, in questi lettori, si è andata deformando sotto il suo stesso generoso peso, all'ennesima via dell'inferno lastricata dalle ennesime buone intenzioni. Invece, dopo tutti questi anni, sembra proprio si possa dire che questi lettori di Repubblica, come si dice dalle mie parti, “non mangiano chiacchiere”.

Per esempio: ricorderete come le stesse carte che a Milano non valsero a Cesare Romiti neanche una multa per divieto di sosta, a Torino ressero una condanna ad un anno e mezzo di reclusione per un falso in bilancio da centotrenta miliardi di lire. O che la conclusione della c.d. "Guerra di Segrate", (fine anni '80), non solo non fu ritenuta uno "scippo" (questo fu un conio successivo) dal diretto interessato, l'Ing. Carlo De Benedetti, ma anzi fu da questi annunciata agli azionisti e alla pubblica opinione come un'operazione laboriosa ma giunta ad un epilogo equilibrato e reciprocamente vantaggioso. Mentre, in un caso, “il libero convincimento” permise a giudici diversi di vedere bianco dove altri avrebbero visto nero, nell'altro, l' “autonomia della magistratura” servì a sostenere il “ripensamento di svelatore” di una stessa persona. Solo che se uno qualsiasi di voi subisce uno scippo, anche se non sa chi ne è stato l'autore, non torna a casa tutto contento e dice alla moglie, o al marito, che alla posta gli hanno regalato cinquecento euro; ma racconta la violenza subita fra lacrime, lividi e rabbia, imprecando contro l'ignoto malfattore; invece, qui, nei sei anni che separarono il Lodo Mondadori dalle “confessioni” di Stefania Ariosto (1995), nessuno di quelli che l'avrebbero subito si accorse dello scippo. Lo “scippo” fece inaspettatamente capolino solo dopo tre anni dallo scoppio di Tangentopoli, la liquidazione dei partiti di maggioranza della Prima Repubblica, l'apertura a Napoli del “Fronte Berlusconi”, la fuoriuscita dolce del medesimo De Benedetti dalle indagini milanesi, la loro copertura acritica ad opera dei media del suo Gruppo, e mentre si scavavano i primi solchi per la seminagione dell'Ulivo. Fu uno scippo “a futura memoria”.

 Questo per dire che quegli italiani appaiono avere dimestichezza più con gli indugi mondani che con le tensioni morali e che, semmai, siano consapevoli di sciorinare queste per meglio favorire quelli. Non sono sprovveduti; né asceti, con rarissime eccezioni. Danno l'impressione che, sulla giustizia, mentano sapendo di mentire. Più o meno come chi ha parlato di ristrutturazioni edilizie “a sua insaputa” ma, noblesse oblige, agendo su un altro ordine di grandezza. Un ordine più diffuso e partecipato.

Per sincerarsene, è sufficiente stare in mezzo a loro con piglio da “antropologo sul campo”. Esiste, infatti, una dimensione quotidiana e corrente di quella dimestichezza mondana, in forma di cattedre universitarie e nella scuola secondaria, di istituti di ricerca, di redazioni, di settore cinematografico, di saggistica, di varia produzione libraria e infotainment, di dirigenza amministrativa, di “crema impiegatizia”, che da una certa interpretazione dell'azione penale, da “una certa idea dell'Italia” che quell'interpretazione innerva, ha ricevuto e seguita a ricevere alimento- redditi non disprezzabili, carriere impensabili, un certo effimero potere che soddisfa una vana e mediocre vanagloria.

Sicchè, se è vero che, grosso modo, dietro Berlusconi si è schierata l'Italia che lavora più di quanto legga, con inevitabili profittatori e maneggioni, non è meno vero che sul versante opposto, si trova quella che dice meno di quanto sappia, con pochissimi a poter credibilmente affermare di credere puramente e semplicemente a quello che dicono e scrivono sulla giustizia penale: minus habentes e soggetti variamente sottratti alle esemplificate dimestichezze mondane; per definizione, poche unità, fra i lettori di Repubblica.

Perciò qualsiasi progetto di “pacificazione nazionale”, per riuscire, dovrà misurarsi con la tenace concretezza di questi lettori, con la stratificata solidità delle loro personali e capillari roccaforti, con la loro navigata abilità di sofisti postmoderni.

E la giustizia? Ah per quella ci sono i Referendum di Pannella. Tanto, poi si insabbia tutto.

 

 

 

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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