Il lato del traghetto funge da cartellone pubblicitario. C’è scritto: “trentacinque minuti” per una traversata in mare che la concorrenza offre a un’ora. Siamo già qui, alle 9 del mattino, ne approfittiamo. A bordo la prima sorpresa: nel prezzo urlato dall’uomo di mare prima d’imbarcarci non era compresa la tassa di sbarco. Ignoriamo la dimenticanza e paghiamo.
Il tragitto scorre veloce. Sul ponte la mia vicina gioca con la figlia Agata. “E’ bello, ma si mostra solo di giorno”. “Il sole” dice la madre. “No”, risponde la figlia piccata, ma subito dopo ammette la sua sconfitta dapprima celata solo per una punta di orgoglio.
L’isola ora si vede. Il sole, non quello della bimba, viene coperto da una nuvola. Quando si è sotto, è difficile definirne i contorni. Da lontano invece quella massa soffice e voluttuosa si mostra in tutta la sua irregolarità e ora copre l’isola come a nascondere un’onta o forse per rispetto: qui non è ancora tempo che il sole torni a splendere.
Le conversazioni vacanziere assumono un carattere diverso. Si fanno improvvisamente più serie. C’è chi si alza in piedi. Rispetto o morbosa curiosità? Ma qui la curiosità è legittima. In mezzo al mare, vicino alla costa, ci sono due scogli innamorati che si guardano senza mai toccarsi, sfiorati dalle stesse raffiche di vento e bagnati dalle stesse acque salate. Nel loro infinito ballo a distanza, una notte, hanno incontrato le luci, la festa e la musica. Urla festose, che con un urto e un carambola, si sono trasformate in grida di smarrimento e di paura. Eppure doveva essere solo un “inchino”.
“Vedi, ha urtato contro quegli scogli. Andava troppo veloce”. “Chissà che gli ha detto il cervello”. “Mamma, ma perché è passato così vicino alla costa?”. Sembra che il traghetto voglia tenersi al largo, ma poi si avvicina, si allarga e si riavvicina. Un’altra danza, questa, ma serve solo per prendere le onde nel modo giusto. Lei è lì, sdraiata, irriconoscibile. “Comincia ad arrugginirsi un po’”. Sul fianco al sole sono state montate delle strutture di ferro. “E’ come se le avessero messo la ciambella”. Intorno è tutto un brulicare di uomini, gru, giubbotti di salvataggio. Il traghetto ora le è accanto. Silenzio, foto. Vola qualche accusa alla “bravata del comandante”. “Che vuol dire bravata, mamma?” “Cavolata, Agata, grande cavolata”.
Il porto beffardo accoglie i visitatori mostrando i suoi gioielli. Ma qui, a parte le cerniere argentate intorno agli oblò, non brilla più niente. Qui c’è solo ferro e pure arrugginito.
Lei ora è alle nostra spalle. La nuvola è proprio sopra di noi. Chissà quanto sarà grande. Chissà quali contorni ha. Sul molo è un viavai di persone. Tanti flash anche da lì. Si mettono in posa dando le spalle al mare e poi corrono a guardare se dietro è stata immortalata anche “Lei”, altrimenti dov’è il gusto.
Il traghetto attracca. Dovevano essere trentacinque minuti? Millantatori quelli del “Vola al Giglio”. Ce ne sono voluti almeno cinquanta.
Epilogo
Ore 18: il molo comincia a tingersi di giallo, blu, marrone, grigio. Sono i colori delle tute della manodopera specializzata. I loro volti sono bruciati dal sole, i pantaloni macchiati di sporco, i collari salvagente a tracolla sulle spalle provate dalla fatica. Sembrano marines che ogni giorno tornano da quella ‘guerra’ in mare che paradossalmente si chiama “Concordia”.
*Laura Bastianetto, scrittrice e giornalista romana, è coautrice con Tommaso Della Longa del romanzo-verista "Lampedusa. Cronache dall'isola che non c'è"
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