Il Governo Letta-Alfano ha approvato un Decreto-Legge ricco di previsioni sanzionatorie e processuali, su svariate materie: molestie e minacce reiterate (c.d. stalking), molestie informatiche, violenze negli stadi, ma, soprattutto, l’omicidio in cui sia vittima una donna. Tutte queste previsioni hanno in comune una caratteristica: annunciano indispensabili innovazioni in realtà ampiamente superflue, dato che intervengono su un già robusto e articolato quadro normativo.
Consideriamo il reato-star di questo tonitruante decreto, il c.d. femminicidio. Nel caso dell’omicidio riguardante una donna, in primo luogo, era ed è già presente nel Codice Penale una circostanza aggravante che contempla proprio la disparità di forze e, in genere, di condizioni, fra vittima e carnefice: è la c.d. minorata difesa, per cui chi, nel commettere un qualsiasi delitto (quindi anche l’omicidio), approfitta di un qualsivoglia stato di inferiorità della persona offesa, commette un delitto aggravato da questo approfittamento; in secondo luogo, uccidere “una donna in quanto donna” è, esattamente, uccidere per un “motivo abietto”, cioè tale da ripugnare alla comune coscienza di una comunità, ed è un’altra aggravante; infine, se il fatto è commesso dal padre contro la figlia, dal figlio contro la madre, dal marito contro la moglie, è pure prevista una terza aggravante, specificamente per l’omicidio. Tutto già nel nostro Codice. In tutti i casi appena richiamati, se il giudice non si sottrae alle sue responsabilità (e se ci sono le prove), la pena è quella massima.
Nè si può sostenere che quanto già previsto non colga lo specifico di un reato subito da una donna, e che, pertanto, le c.d. nuove norme assolvano comunque ad una funzione di sedicente orientamento culturale e siano, fosse anche solo per questo, giustificate.
Anche da questo punto di vista, non si apprezza l’utilità del decreto: le circostanze indicate, infatti, già si prestano a descrivere nitidamente ciascuna un aspetto dell’aggressione alla “donna in quanto donna”: proprio perché rendono più grave il delitto commesso approfittando di una minore capacità di resistenza, o abusando di un ruolo familiare, o esprimendo “quella” motivazione, particolarmente spregevole: tutti profili specificamente attinenti alla condizione femminile; cioè si aggrava giuridicamente mentre si qualifica culturalmente (a meno che non si voglia supporre, senza tuttavia ammetterlo, che, mediamente, i giudici italiani non riconoscono in questi termini un simile quadro-tipo; ma, se così fosse, forse bisognerebbe agire in questa direzione, o no?). Allora perché le c.d. nuove norme? Perché il c.d. femminicidio è Legge dello Stato?
Per analfabetismo istituzionale, per accidia conoscitiva, per spirito conformista.
Il caso è emblematico di come si costruisce oggi la c.d. pubblica opinione e di come le istituzioni c.d. rappresentative (non solo in Italia: il fenomeno è mondiale) siano pericolosamente inclini ad annaspare, ansimanti, alla ricerca di facili quanto effimeri consensi, più che a seguire una rotta. Si tratta di un template, già piuttosto rodato.
Prima si comincia il “battage” nelle università e sui media, dove subito occhieggia la tendenza giusta, la moda, l’ultimo ritrovato per apparire à la page, una sorta di “must” psico-sociale, mezzo capo d’abbigliamento e mezzo slang, “il Top del mese”, quello che non può mancare nel vostro guardaroba etico, la chincaglieria selettiva appena lanciata sul mercato degli ammiccamenti, delle “parole giuste”. Poi, più o meno simultaneamente, si conferisce indispensabile utilità al prodotto: il c.d. femminicidio non è solo una formula ardita per suscitare la pubblica riflessione, visionario spunto per approfondire un fenomeno, epigrafe apodittica di un possibile e fecondo confronto: no, no; è la Via, la Verità, senza della quale il mondo verrà avviluppato da una coltre di opprimente regresso. A una tale operazione di consolidamento concorrono le immancabili statistiche, sondaggi, “polls” e vario altro materiale tossico-mediatico (sorvolo su quello che invece scrive l’ISTAT). Fatto questo, non resta molto altro da aggiungere: perché si è già alterato il pensiero, si è spostata la riflessione dal campo del razionale a quello del sacro, dalla parola all’icona, dalla persuasione all’ingiunzione. Si è scoperta una nuova verità, non esistono argomenti contrari, solo Forze Oscure Della Reazione In Agguato.
Ora, se fosse solo questo, uno potrebbe fare spallucce e, in tempo d’estate, dirsi persino divertito da tanto candore prepotente, da una tale vaniloquio scomunicante. Ma non è solo questo. Non è solo piegare e umiliare la norma giuridica al basso rango di manifesto, di tazebao. Non è solo abdicare al senso più profondo della funzione di governo, che dovrebbe conoscere l’ordinamento, le leggi, gli strumenti istituzionali, e, parolona, dovrebbe possedere un disegno, da scandire in cifra culturale, refrattaria all’indirizzo politico vissuto come collezione primavera-estate o autunno-inverno. E’ peggio. E’ coprire, depistare, fiancheggiare. Quanti omicidi, recenti e non recenti, sono stati preceduti da denunce rimaste ignorate, da invocazioni rimaste neglette, da solitudini cinte da ottusità burocratico-giudiziaria e irrise da indifferenza e meschino cinismo garantito in busta-paga? (chi volesse, può dare un’occhiata al “Fuori dal Coro” del 12 Luglio scorso).
Il diritto penale, in una società ordinata, è chirurgia d’urgenza, solo chirurgia d’urgenza; non è pane, non è sapere, non è cultura, non è sensibilità, non è progresso: è uno scannatoio, a volte ritenuto indispensabile, cui bisognerebbe ricorrere sapendo quello che realmente è: una parentesi primitiva pubblica autorizzata da parentesi primitive private. Rimanendo tuttavia assai dubbio se una simile corrispondenza non degradi lo Stato più di quanto lo munisca e lo tuteli.