La sentenza emessa questa settimana dal tribunale di Sanford in Florida sull'omicidio di Trayvon Martin, il giovane ragazzo nero ucciso dal vigilante George Zimmerman, ha innescato una vera e propria reazione a catena nell'opinione pubblica americana. La morte di un ragazzo nero e disarmato per mano dell'auto-designato paladino dell'ordine pubblico con l'inevitabile pistola e le patetiche manie di grandezza ha provocato una valanga di commenti il cui comune denominatore è il riflesso condizionato di tutti coloro che si arrogano la certezza di sapere come siano andate veramente le cose.
Un omicidio evitabile o un caso di genuina autodifesa? Non lo sapremo mai. Ciò che sappiamo è che in America, per condannare qualcuno per omicidio occorre avere prove inconfutabili che non lascino margine di dubbio, cosa che, a quanto pare, la pubblica accusa non è riuscita a dimostrare.
Se Zimmerman sia colpevole o innocente quindi, è una polemica che lascia il tempo che trova.
Ciò che appare più appropriato invece, è un'analisi delle reazioni sia all'omicidio che alla sentenza di domenica che per un po' ha fatto temere un ripetersi degli episodi di violenza scoppiati in California nel 1992 dopo l'assoluzione dei poliziotti che pestarono selvaggiamente l'automobilista nero Rodney King.
A prescindere dal fatto che si sia arrivati o meno a questi eccessi, è chiaro che la componente razziale continua a dividere l'opinione pubblica in un'America che, con l'elezione di Barack Obama, sembrava aver voltato pagina entrando in una nuova fase della sua storia.
Il 5 novembre 2008, il giorno dopo l'elezione di Obama, i titoli dei giornali e delle agenzie di stampa di tutto il mondo hanno, prevedibilmente, messo in risalto il clamoroso significato storico dell'elezione del primo presidente di colore degli Stati Uniti.
La gravissima crisi economica nella quale l'America si trovava in quel periodo tuttavia e l'attesa intorno alle strategie politiche che la nuova amministrazione avrebbe adottato, hanno rapidamente preso il sopravvento tra l'opinione pubblica e il momento di riflessione nazionale sul valore simbolico dell'ascesa di un presidente “nero” è stato parzialmente eclissato dalle circostanze del momento.
Mentre l'America si concentrava sull'emergenza economica, l'enfasi sul valore simbolico di questa elezione è stato ripreso e ribadito da altri paesi come dimostrato nel 2009, dalla ridicola assegnazione del premio Nobel per la pace allo stesso Obama, vale a dire ad uno statista eletto da soli nove mesi che non aveva fatto ancora nulla per meritarselo.
Ma col passare del tempo e con l'emergere dei tratti caratteriali di questo presidente, sono giunti inevitabilmente anche i primi distinguo sulla vera appartenenza etnico-culturale di Barack Obama molti dei quali provenienti proprio da quella comunità afro-americana che lo ha sempre sostenuto.
Da più parti, improvvisamente si è iniziato a mettere in risalto il fatto che Obama è figlio di un padre nero africano che é stato quasi totalmente assente dalla sua vita, e di una madre bianca, proveniente dal Kansas, uno degli stati-simbolo di quel sostrato culturale rurale, bianco e anglosassone che è lontano anni-luce dalla cultura nera del Sud o dei grandi centri urbani d'America.
In altre parole, pur essendo figlio di un africano del Kenya e di un'americana del Kansas, il presidente si è paradossalmente visto negare il suo status di “afro-americano”.
Con un occhio alla rielezione del 2012, durante i primi quattro anni del suo mandato Obama ha cercato attentamente di evitare un'identificazione con le rivendicazioni socio-politiche dei neri d'America che potesse apparire troppo militante e forse proprio questo suo atteggiamento ha suscitato commenti come quello dell'attore Morgan Freeman che ha dichiarato senza mezzi termini che “Barack Obama non è il primo presidente nero d'America ma il primo presidente mulatto.” E che “L'America sta ancora aspettando il suo primo presidente nero”.
Similmente, Cornell West, attivista e docente di Studi Afro-Americani all'università di Princeton, ha riecheggiato le critiche ad Obama da una prospettiva politica definendolo un “Rockfeller-republican [vale a dire un moderato di destra. Ndr] con la faccia nera”.
Dopo i disastri verificatsi nel corso dell'amministrazione Bush, dagli attentati di 9/11 alle guerre in Afganistan ed Iraq fino al collasso economico-finanziario della recessione, forse l'America ha esagerato nel voler riporre tante attese e speranze nell'elezione di Barack Obama che, proprio grazie al valore simbolico della sua ascesa, è stato visto da molti come un presidente in procinto di presiedere ad una svolta epocale nella storia americana. Un presidente in grado di ridefinire le dinamiche e i rapporti tra i vari centri di potere, di ridimensionare lo strapotere delle banche, di riequilibrare il divario sociale e, in virtù delle sue origini, di eliminare quella endemica diffidenza tra i vari gruppi etnici che costituiscono la società americana.
Obama invece si é rivelato per lo più un buon amministratore della cosa pubblica piuttosto che il grande riformatore della politica americana che alcuni si aspettavano. Un buon funzionario allevato dai nonni materni alle Hawaii e che affonda le sue radici culturali nel mondo accademico di Harvard e della Columbia University, in altre parole, nei pilastri intellettuali dell'establishment bianco moderato che, proprio grazie a questa sua storia personale identificabile, riconoscibile e, soprattutto, non-minacciosa, gli ha consentito di arrivare alla Casa Bianca.
Subito dopo l'omicidio di Trayvon Martin nel febbraio del 2012, il presidente Obama ha dichiarato “Se avessi avuto un figlio, molto probabilmente somiglierebbe a Trayvon”.
E' possibile ma quella tra Barack e Trayvon sarebbe stata una somiglianza puramente esteriore.