God bless the projects! Un'esclamazione che è un mantra qui nel mio quartiere, un'invocazione, una preghiera a protezione di chi protegge noi. Noi che vogliamo restare, ma che sempre meno possiamo permettercelo. Tra amici e vicini di casa, parliamo, consideriamo, ci lamentiamo, ci arrabbiamo. Il nostro cruccio sono gli affitti, i prezzi, le spese folli. Ma sappiamo che se in questa porzione di Manhattan, dove le vie smettono di seguire la numerazione, per sostituire i numeri con le lettere, se qui c'è ancora qualcosa a misura di gente normale (gente a medio budget) dobbiamo dire grazie ai project.
Abito ad Alphabet city e i project da queste parti modellano il panorama urbano e la sua umanità. Quegli enormi palazzoni in mattoni rosso-marroni in cui abitano famiglie a basso reddito, persone che non possono permettersi la giostra di prezzi dettata dall'onnipotente real estate newyorchese, delimitano il confine est del quartiere. Non si può dire che siano belli, ma sono preziosi per questa città. Imponenti e un poco tristi, i project si ergono, lungo le avenue C e D, come lunghe mura di cinta, a guardia del quartiere, a salvaguardia di una città che cerca di resistere. Sono l'ultimo baluardo, il fortino di una popolazione urbana per cui sembra non esserci più spazio nella New York del nuovo millennio. Che dio li benedica e li protegga, che Bloomberg e gli immobiliaristi li lascino in pace, che gli agenti immobiliari tengano giù le mani.
É grazie a loro e alla gente che li abita che nel mio quartiere posso ancora trovare un supermercato dove fare una spesa normale, senza dover spendere cifre da boutique. È grazie a loro che nella mia zona ci sono i dollar store e i deli vendono caffè a 75 centesimi. Grazie a loro posso mangiare un tomales messicano per 2.50, un piatto di verdure indiano per 3.50, un lo mein per 4 dollari. Grazie a loro la lavanderia cinese lava e piega i miei vestiti per 50 centesimi al pound. Ed è perché i project esistono e resistono che, nel polveroso e buio Raul Candy Store puoi trovare statuette dei santi a fianco di prodotti per la pulizia della casa, improbabili quadri e giochi di società degli anni '80, un ventilatore démodé, cavi elettrici, un servizio di bicchieri stile casa della nonna, un vecchio televisore. Ed è la gente che vive nei project che ogni giorno si incontra davanti a Raul Candy Store e si siede intorno a un tavolino di plastica per giocare a carte, chiacchierare, guardare i passanti. Dai project vengono i bambini che giocano nel giardino sotto casa e che corrono a comprare quelle strane granite colorate che un minuscolo vecchietto ogni giorno si trascina dietro, in un carrello più grande di lui. Nei project vive il simpatico signore portoricano che gestisce l'alimentari all'angolo e che ogni volta che mi vede mi dice una parola in spagnolo per dimostrarmi quanto si somigliano la sua lingua e la mia. Ed è nelle aiuole sotto i project che la domenica le famiglie accendono i barbecue, mentre i bambini, allegramente rumorosi, si tuffano nella piscina pubblica. Dai project viene l'odore di cibi speziati che riempie l'aria alla sera. Dai project viene la signora in ciabatte che qualche giorno fa, vedendomi guardare con aria interrogativa un esotico vegetale sui banchi del supermercato, mi ha insegnato una ricetta per cucinarlo. Dai project viene anche tanta droga, ma quella se non venisse da lì arriverebbe comunque da qualche altra parte.
In una città che sta perdendo l'anima a un ritmo direttamente proporzionale all'aumentare degli affitti, queste isole di gente vera sono quello che fa la differenza tra un quartiere e l'altro. Sono la New York che non possiamo permetterci di perdere. Finché ci saranno loro, saprò che nel mio quartiere c'è posto anche per me.