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July 10, 2013
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July 10, 2013
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L’Italia a caccia senza sapere come e perché

Valerio BoscobyValerio Bosco
Time: 3 mins read

Ci sono cose che danno la misura dello scarso senso della realtà da parte di una buona fetta della classe dirigente italiana. Una di queste è senza dubbio la vicenda degli F35, il nuovo aereo-caccia multiruolo L’F 35 è dotato di tecnologia Stealth, ci direbbe con espressione seria e per niente rassicurante uno dei soliti esperti militari da salotto. Ma non solo. “Si tratta di uno Strike Fighter capace di effettuare attacchi al suolo di quinta generazione”. E ancora: “Agilità d’intervento nei diversi scenari di crisi”. Ottimo per l’interdizione aerea. Eccellente per il supporto ravvicinato a truppe di terra. O per attaccare le strutture nemiche. Un bell’arnese proprio, che dovrebbe consentire all’Italia di dotarsi, sulla carta, di uno dei velivoli tecnologicamente più avanzati.

Per farci cosa, si è capito? Questo caccia doveva “rivoluzionare” l'aereonautica militare. Ma si è rivelato presto una colossale figuraccia per la compagnia Lockheed Martin, la società americana che ha vinto il mega-appalto e che ha assegnato le forniture ad un grosso numero di subappaltatori.  Tra cui l’immancabile italiana Alenia Aeromacchi.

Costi di produzioni crescenti, preoccupanti imperfezioni tecniche, deficienze all’impianto elettrico hanno innescato polemiche negli Stati Uniti all’inizio del 2013. Il Pentagono ha fatto la voce grossa con la Lockheed, la quale è stata costretta ad effettuare ricerche e indagare sulle fragilità del nuovo veivolo fantascientifico. L’effetto è stato quello di spingere Paesi come Canada, Danimarca e Italia a ridurre il numero delle rispettive ordinazioni. Dai 131, l’Italia si è poi limitata a chiederne una novantina di questi fantastici F35.

Qualche settimana fa la querelle è riaffiorata in Parlamento. La Camera ha approvato una mozione che impegna il governo a non procedere ad acquisizioni senza che il Parlamento avvii e completi un'indagine conoscitiva di sei mesi.

A rendere la situazione un po’ più caotica e tesa – se mai ce ne fosse bisogno – ci ha pensato il Consiglio Supremo di Difesa (CSD) presieduto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con una certa perentorietà, il CSD ha indicato che la titolarità delle scelte sull'ammodernamento delle forze armate, quindi anche sugli F35, spetterebbe esclusivamente al governo. Secondo l’interpretazione presidenziale, le decisioni operative e tecniche sul sistema di difesa spetterebbero al governo sulla base di una legge approvata nel 2012 (244/2012) e non potrebbero subire il veto del Parlamento. In altre parole le Camere non avrebbero il potere di esprimere un parere vincolante su un dettaglio tecnico. Si certo, un affare minore! Ovvero l’opportunità di spendere oltre dieci miliardi di euro per un prodotto – i caccia 35 – presentati da analisti come strumenti in grado di “rivoluzionare” l’aereonautica militare.

È vero, come ha fatto notare Mario Monti, che sin dal 1999 governi di vario colore hanno dato parere favorevole alla commessa degli F35. È anche vero che la spending review – che ha costretto all’umiliante taglio di servizi sanitari e sociali – ha risparmiato al Paese un dibattito sui costi della nostra spesa militare. Qualche mese fa, gli Stati Uniti, hanno avviato un complesso e delicato processo di riduzione del budget civile e militare di 85 miliardi dollari. Potremmo farlo anche noi. Questa circostanza, unita alle imbarazzanti notizie sulle falle del sistema degli F 35 rendono quantomeno necessario coinvolgere il Parlamento e l’opinione pubblica sul tema. Un tema che appare necessariamente centrale nel rapporto fiduciario e d’indirizzo politico che lega il governo e il Parlamento della Repubblica.

Ma torniamo alla domanda iniziale: gli F35, per farci cosa? Pochi che lo abbiano spiegato con parole semplici. Nessuno che abbia suggerito l’occasione di aprire un dibattito sulla possibilità di condividere spese e razionalizzare l’uso e la disponibilità degli strumenti militari nel quadro di una rinnovata difesa integrata dell’Europa. Senso della realtà, dei propri limiti, del tempo in cui viviamo richiederebbe esercizi meno ambiziosi e più riflessivi di ciò che l’Italia può e non può fare.

La nuova disputa degli F35 ha ricordato a chi scrive un dibattito tra analisti e politici di vario orientamento svoltosi a Roma nel febbraio 2013.  “L’Italia ha bisogno di un politica africana”, questa l’idiozia suggerita da un collega. A quanti africani interessa cosa pensa, del loro Paese, una media potenza mediterranea in declino come l’Italia? È già tanto se riusciamo ad incidere in contesti come quello mediterraneo. Oppure in quei Paesi africani cui siamo effettivamente legati per ragioni storiche, come l’Etiopia, la Somalia e l’Eritrea. Lo fanno gli Stati Uniti, perché non dobbiamo farlo noi? Siamo in crisi. Ed è giunto il tempo che mezzi e risorse della nostra presenza internazionale – militare e diplomatica – siano in linea con questa realtà.

 

 

 

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