Ci sono un italiano, un italo-americano e un italico. Tutti hanno in qualcosa in comune. La radice ital, ovviamente, che contraddistingue una provenienza, un’appartenenza, un’identità. Eppure, tra di essi esiste, in particolare tra italiani e italici come avremo modo di vedere, una distanza culturale e comunicativa paradossale.
Facciamo chiarezza. Di chi stiamo parlando? Sappiamo, come ho già avuto modo di dire, che le identità collettive, in tempi di globalizzazione, non possono essere rigidamente definite, ma sono soggette a processi dinamici continui di natura glocale, che tendono a ridefinirle continuamente.
Gli italiani sono i più facilmente identificabili: sono coloro che hanno la carta d’identità italiana, pertanto i cittadini. Possono vivere in Italia o fuori, temporaneamente o stabilmente, ma la Repubblica italiana gli riconosce diritti e doveri. E’ un’identità socio-politica. E’ quella che si è creata a partire dagli assetti di Westfalia (1648), poi con il post Rivoluzione francese che ha dato luogo alla cittadinanza all’interno di uno Stato-nazione.
Gli italo americani, come tutti gli italo qualcosa, rappresentano la copresenza di due appartenenze, generalmente conseguenza della grande emigrazione di massa post-unitaria italiana. Un’appartenenza è all’Italia, l’altra al paese di immigrazione. Sono, nell’opinione diffusa, un po’ dell’una e un po’ dell’altro, nessuno realmente di uno dei due paesi, americano per gli italiani, italiano per gli americani ecc…. Il tema della cittadinanza si sfuma: si può essere italo americani senza avere la cittadinanza italiana, anche se è possibile richiederla nei casi previsti. La stessa parola italo americano, se poi scritta con il trattino, sembra evidenziare questi due mondi come parti contrapposte che non si incastrano, ma si bloccano, invece, in quel trattino.
Infine, gli italici. Identità collettiva nuova, che nasce all’interno dei processi di formazione identitaria transnazionale e su basi culturali. In un mondo dove la sovranità dello Stato-nazione è sempre più messa in crisi da nuove entità: sovranazionali, subnazionali, mercato, finanza globale, comunicazioni on line, mobilità senza barriere; non si può rimanere confinati a quelle categorie che definivano un mondo determinato dagli stati come attori principale. Questi definiscono chi siamo noi, chi sono loro, se gli altri sono nemici o amici. E’ l’idea, in fin dei conti, dell’internazionalità, termine diffuso, ma che non chiarisce il flusso informe dei processi globali, in quanto pone lo Stato nazione ancora al centro di tali dinamiche. Seppur non così diffuso, il termine italicità intende rappresentare il processo di socializzazione della cultura italiana soprattutto fuori dai confini italiani, nella sua capacità di ibridarsi con altre. Sono italici: gli oriundi, gli italofili, quei cittadini di cultura e lingua italiana presenti in Svizzera, in Istria, a Malta e molto probabilmente i nuovi immigrati nella penisola. Gli italici si definiscono per la loro pluriappartenenza: sono italici ma possono accogliere altre identità tipiche: quella anglosassone, americana o australiana; quella ispanica, argentina o venezuelana, quella brasiliana ecc…
Detto questo, quali le relazioni che legano i tre: l’italiano, l’italico e l’italo americano?
Nella nostra riflessione riteniamo che l’italo americano sia per natura un italico. Eliminiamo, così, ogni trattino e ogni contrapposizione, visto che si tratta di un’identità nuova e con una sua essenza particolare. Il problema è la relazione tra italiani e italici. Ad onor di cronaca, evitiamo volutamente la questione se gli italiani siano italici o meno, tema che vede contrapposte alcune posizioni. Non vi è dubbio, tuttavia, che gli italici sono per la maggior parte dei casi non italiani.
Ma quale la consapevolezza degli uni e degli altri? Gli italiani, a mio avviso, hanno ben poco presente e sono indifferenti alle vicende degli italici nel mondo. E lo sono a tutti i livelli: economico, culturale, mediatico e peggio che mai politico. D’altra parte la politica metterebbe in crisi i suoi assetti se riconoscesse il mondo italico come suo interlocutore. E, allora, siamo ancora miserevolmente fermi in patetiche discussioni se sia meglio lo ius sanguinis o lo ius soli. Cose d’altri tempi.
Il problema parte da lontano. Dai fatti post-unitari. La grande emigrazione ha rappresentato per l’elite politica di un paese formatosi da poco, e che aveva voglia di entrare nel regno dei grandi, una ferita da allontanare dalla coscienza del paese. Uno Stato appena diventato tale, che non sapeva trattenere i suoi cittadini, sembrava dimostrare una debolezza endemica che mai l’avrebbe più lasciato. E’ stato meglio mettere lo sporco sotto il tappeto, mandare tutto nel dimenticatoio. La storia dell’emigrazione, quindi, viene snobbata nei programmi scolastici, pochi vi si interessano a livello di ricerca, per non parlare dei media italiani così ottusamente presi dalle sole vicende italiane.
Si tratta di una storia spezzata.
All’opposto gli italici hanno sempre guardato all’Italia, in particolar modo alla sua cultura, che in molti casi hanno portato con sé , tramandato, trasformato, riadattato. E se in Italia prevale il solito lamento auto-denigrante, gli italici spesso hanno costruito le loro fortune sull’orgoglio della loro appartenenza d’origine. Come pure ci racconta la bella lettera di Antonietta sulla difficoltà del vivere in Italia e sull’amore del vivere il mondo italico (almeno così io la interpreto).
Ma la frattura era diventata irrimediabile. Per gli italiani l’oriundo diventa cittadino americano, o argentino oppure brasiliano. Lo si riscopre quando si legge il cognome, magari diventato famoso, perché attore, calciatore, musicista o artista. Insomma gli italiani e gli italici si sono persi di vista. E lo hanno fatto nel modo peggiore pensando, superficialmente, banalmente e grossolanamente che l’identità che emana uno Stato-nazione coincide con la propria. Ma questo, e qui mi permetto di scomodare Jung, non corrisponde al nostro inconscio collettivo. Italiani e italici sono molto più vicini di quel credono. E’ solo che non lo sanno.
E’ perché parlano lingue diverse? Può darsi. Gli italiani a malapena qualche parola di un’altra lingua. Gli italici la lingua del loro paese e magari riscoprono l’Italiano. Ma è solo in un contesto di plurilinguismo che il “commonwhealt italico” può diventare tale, proprio perché glocale.
E’ perché ambasciate, istituti di cultura italiani non sono riusciti a comprendere il cambiamento transnazionale? Può darsi. Forse molto di più hanno fatto le Camere di Commercio Italiane nel mondo, ma il lavoro è quasi sempre stato frammentario e poco coordinato – su questo tema si rimanda ai lavori di Piero Bassetti (1995) – anche se rappresentano una risorsa straordinaria, soprattutto per promuovere una community business italica nel mondo.
Il mercato è la chiave di accesso alla consapevolezza italica. A partire da questo quante occasioni di business, quanti imprenditori italiani e italici potrebbero guardarsi con l’idea di avere qualcosa comune e la possibilità di fare progetti e investimenti. La cultura italica da sempre è stata ponte nel mediterraneo e poi nel mondo. Eppure qualcosa si è spezzato. Con troppa facilità, purtroppo. Un ponte lo si butta giù in un attimo ma a ricostruirlo ci vuole molto più tempo.
Annodare i fili di pezzi di cultura italica nel mondo è oggi indispensabile perché può essere una grande risorsa per le più svariate ragioni. E’ l’esprit du temps. Non facciamocelo sfuggire. La VOCE di New York, mi si permetta il complimento, l’ha capito. La mia esperienza me lo insegna: gli italici sono sempre di più risorsa per gli italiani.
Ehi!!! Italiani! Li sentite?