La vicenda Ingroia-Messineo può essere ritenuta esemplare da almeno tre diversi punti di vista.
Mostra, in primo luogo, che i magistrati sono uomini e donne di questo mondo: hanno parenti che possono imbarazzare (il cognato del Procuratore accusato di associazione per delinquere e ricettazione), amici o conoscenti che possono chiedere qualcosa in più o in meno degli altri (il Dott. Francesco Messineo avrebbe invitato un suo sostituto a “soprassedere” sull’indagine verso il Direttore Generale di Banca Nuova). Dato che l’opinione prevalente è indotta a tributare liturgie gratuitamente encomiastiche a “prescindere”, non appaia leziosa precisazione. Non sono “eroi” per concorso.
In secondo luogo, mostra la perenne funzione del Capro Espiatorio. Il Capro Espiatorio produce un tipico effetto. Distrae. Se, com’è possibile, Messineo verrà trasferito d’ufficio e allontanato da Palermo, si potrà affermare a viva voce che il sistema giudiziario possiede efficaci anticorpi, che le Legge trionfa sempre se a maneggiarla sono i magistrati nella loro insindacabile autonomia (il CSM questo rappresenta).
Quello che starebbe emergendo, invece, ed è il terzo punto, tutto è meno che il trionfo della Legge. Una Procura della Repubblica è un luogo di immenso potere. Bene: ciò che la vicenda in esame insegna è che si tratta di un potere libero di fare quello che vuole. E se l’immagine della magistratura che può fare quello che crede può apparire ingiusta, si consideri che nessuno di lor signori ha il timore di sciorinare il verminaio che si cela dietro certa istituzionale compunzione.
Un esempio. Ad Antonio Ingroia che, nel corso dell’ultima campagna elettorale si era paragonato a Falcone, la Ilda Boccassini, in allure pasionaria, manda a dire: “Tra i due, la distanza si misura in milioni di anni luce”; replica Ingroia, altrettanto allusivamente: “Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei”. Sono solo pettegolezzi? Se sì, può, chi se ne farebbe così sgangherato autore, assumere un ruolo decisivo nell’intera vita nazionale? E se no, come si misurerebbero gli anni luce in magistratura? Ci sono atti, omissioni, o incapacità che noi, popolo-bue, dovremmo conoscere? E non dovremmo pure conoscere se vi siano stati atti od omissioni che avrebbero alimentato la disistima di Borsellino? E, anche in questo caso, non dovremmo poterci interrogare sull’opportunità di affidare i destini del Paese a simili interpreti?
Consideriamo ora queste adiacenze. Viene imbastito un processo all’intera classe politica e istituzionale italiana (magistratura esclusa). Si veicola, o si tenta di veicolare, l’immagine di un tradimento collettivo (politici e alti funzionari dello Stato, “la casta”) e di un redentore (la “magistratura antimafia”). Al centro di un tale gorgo, si afferma stia la mancata cattura di Provenzano. Il prezzo dello scambio sarebbe stato Salvatore Riina (e torna il Capro Espiatorio): da un lato, Provenzano avrebbe guadagnato la libertà, acquisendo il dominio dell’organizzazione mafiosa, dall’altro, alcuni politici avrebbero salvato la pelle, altri avrebbero avuto voti e i funzionari avrebbero conseguito brillanti avanzamenti di carriera.
Mentre tutto questo accadeva, sarebbe pure accaduto che, a causa di non meglio precisati equilibri o squilibri interni alla Procura di Palermo, sarebbe sfuggito alla cattura Matteo Messina Denaro, ritenuto il nuovo Capo di Cosa Nostra. Veniamo infatti a sapere che il Capo della Procura intenta a processare l’Italia, portando in aula, con sinistro simbolismo, persino il Presidente della Repubblica, sarebbe stato succube di un altro magistrato; che quest’ultimo, negli stessi mesi in cui assumeva un formale ruolo politico sotto l’effige promozionale della “trattativa disvelata”, avrebbe lasciato “in sonno” intercettazioni che riguardavano il suo capo, asseritamente succube; che in quell’ufficio le “faide” andrebbero avanti dai tempi di Giancarlo Caselli, sarebbero proseguite durante la direzione dell’attuale Presidente della Camera, ed, infine, esplose in questi giorni.
E cosa ne viene? Un innocuo procedimento disciplinare (lo stipendio sempre quello resta, come pure, passata la buriana, il prestigio, il ruolo socio-istituzionale e la pensione). E vi pare che questo non sia un potere libero di fare quello che vuole? Vi pare che abbiano di che temere? Vi pare che in questi casi incomba “il giusto rigore della Legge”? Vogliamo mettere a confronto gli effetti delle due presunte “mancate catture”? Ma scherziamo?
A quanto pare sì, scherziamo.
No, tutto questo non dovrebbe semplicemente produrre una tartufesca vicenda disciplinare. Tutto questo chiama ciascuno di noi ad interrogarci sul fondamento dell’Ordine Giudiziario italiano, così come si è venuto consolidando nel corso della c.d. Seconda Repubblica. Ed è un fondamento che mentre tutto perseguita e accusa, gode di una farisaica impunità, si ciba di rancore reciproco, indulge al narcisismo, non è estraneo alla doppiezza, alla mediocrità del sentire e dell’agire. Per gli effetti che produce, questo fondamento fa riformato radicalmente.
Non è un fondamento eroico. E’ un fondamento umano. Troppo umano.