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May 27, 2013
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Il ‘caso Ingroia’ in un’Italia senza verità

Giulio Ambrosetti - LinksiciliabyGiulio Ambrosetti - Linksicilia
Time: 5 mins read

Bisogna dare atto ad Antonio Ingroia di essere un uomo politico determinato e coraggioso. Uomo Politico con la P e con la U maiuscole. Perché dopo una sconfitta – dovuta più al grande boom dei grillini che ai suoi demeriti: il momento storico non l’ha aiutato – è rimasto nell’agone politico a lottare. E questo gli fa onore.

In un articolo di qualche giorno fa, Pietro Ancona, storico dirigente della Cgil siciliana, ha scritto che se Giovanni Falcone non fosse stato ammazzato, gli avrebbero riservato lo stesso trattamento che stanno riservando ad Ingroia. Ancona ha ragione.

Chi, come noi, ha passato i cinquant’anni ricorderà benissimo quando a Falcone venne impedito di andare a dirigere l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Invitiamo i giovani di oggi ad andarsi a rileggere le motivazioni con le quali il Consiglio superiore della magistratura (Csm) motivava la nomina di Antonino Meli al posto di Giovani Falcone.

Tutti i meriti, tutti i rischi che Falcone aveva corso in circa dieci anni di indagini delicatissime sulla mafia, tutti i grandi risultati ottenuti (a cominciare dal maxiprocesso di Palermo) passavano in secondo piano rispetto ai ‘meriti’ del magistrato che avrebbe preso il posto dello stesso Falcone.

Se i giovani di oggi vogliono capire nelle mani di chi è stata – e nelle mani di chi è ancora oggi – l’Italia, ebbene, debbono andare a leggere le pagine ‘esemplari’ scritte allora dai vertici del Csm per ‘nobilitare’ quello che, in fondo, non era altro che il ‘siluramento’ di Falcone.

Di fatto, è lo stesso Csm che, oggi, vorrebbe spedire Ingroia ad Aosta. Certe cose, in Italia, possono cambiare. Spesso in peggio. Ma ci sono alcune cose che non cambiano: e che non cambieranno mai.

Noi abbiamo vissuto il 1996. Quando Prodi anche se per un pugno di voti, vinse le elezioni politiche e andò per la prima volta a Palazzo Chigi. Noi che, nel nostro piccolo – e con tutti i nostri limiti, che sono tanti – da appassionati della burrascosa storia della Sicilia degli anni subito successivi al secondo conflitto mondiale, ci aspettavamo, da quel Governo (se non ricordiamo male, Ministro degli Interni era un certo Giorgio Napolitano…), l’apertura degli archivi sulla strage di Portella della Ginestra.

Una vicenda ancora per certi versi oscura, nella quale – parlano gli atti del processo di Viterbo – la banda di Salvatore Giuliano, con molta probabilità, venne mandata sulle alture del Pelovat per coprire un’operazione stragista in ‘bilico’ tra mafia e militari americani: mafia e forze militari americane che avevano collaborato, qualche anno prima, e precisamente nel 1943, allo sbarco in Sicilia.

Ma, allora, non bastò la sinistra al Governo (o al potere?) per aprire quegli archivi. Gli archivi italiani sulla strage di Portella sono rimasti chiusi. E chiusi lo sono ancora oggi. Sigillati. Quel poco in più, sulla strage di Portella, che è stato ricostruito negli ultimi anni, lo dobbiamo agli archivi americani, ma non a quelli italiani.

In Italia certe cose possono cambiare. Soprattutto in peggio. Ma ci sono cose che non cambiano. Che non possono cambiare. In fondo, la verità che manca su Portella della Ginestra è molto simile alla verità che manca sulle stragi del 1992. Sono cambiati i personaggi. E’ cambiato l’ordine degli ‘addendi’. Ma il prodotto politico e criminale è rimasto immutato.

Qualche volta gli uomini – i grandi uomini – hanno provato a bloccare certi ‘ingranaggi’ di questo nostro Paese a libertà e a sovranità limitata. Prima di Falcone e Borsellino, in uno scenario diverso, non giudiziario ma politico, ci aveva provato Pio La Torre. Che nei primi anni ’80 del secolo passato era tornato in Sicilia a fare il segretario regionale del Pci dell’Isola proprio mentre due vicende, benché su binari diversi, ‘viaggiavano’ in parallelo: da una parte l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, che in una celebre intervista a la Repubblica, affermava di sentirsi protetto dall’ombrello degli americani; dall’altra parte gli stessi americani, che stavano estendendo il loro ‘ombrello’ militare alla Sicilia con i missili Cruise a Comiso.

La Torre non si sentiva molto ‘protetto’ dall’ ‘ombrello’ militare americano. L’allora segretario del Pci siciliano non si limitava alle parole. Agiva. Era riuscito a mettere su un movimento pacifista di livello internazionale, coinvolgendo i settori più avanzati del mondo cattolico. Un movimento popolare, per essere chiari, molto più esteso e molto più partecipato di quello dei “No Muos” che oggi si battono con valore contro l’installazione delle antenne satellitari militari degli americani a Niscemi.

Da qui un altra contraddizione: proprio mentre il Pci siciliano si ‘sbracava’, nel nome del “Compromesso storico” (e, perché no? all’ombra del ben trovato ‘ombrello americano) con le operazioni clientelari e, in parte, anche criminali (Palazzo dei congressi di Palermo e truffe nei centri Aima per il ritiro degli agrumi), La Torre dialogava con le punte più avanzate del mondo cattolico e, contemporaneamente, provava a frenare lo ‘sbracamento’ del Pci siciliano. L’ingranaggio lo stritolerà: verrà ammazzato, insieme con il suo autista, Rosario Di Salvo, la mattina del 30 aprile del 1982.

Di stragi, di morti e di trattative è costellata la storia della Repubblica italiana. Stragi e morti che, qualche volta, sono il prodotto delle trattative. O, magari, delle trattative che debbono rimanere ‘segrete’ e nascoste, come i fatti di Portella della Ginestra.

L’idea che Paolo Borsellino possa aver intuito, o addirittura scoperto, una trattativa tra Stato e mafia non può essere ammessa nella Repubblica nata con la strage di Portella della Ginestra tutt’oggi avvolta dalle nebbie. Questa tesi, se provata, chiuderebbe un cerchio criminale di oltre 50 anni. In questi casi, l’Italia che tiene chiusi negli archivi le verità di Portella non può che reagire negando, se è il caso, pure l’evidenza.

E’ tutta qui la probabile spiegazione della rabbia ‘telefonica’ dell’ex Ministro, Nicola Mancino. Da quello che abbiamo letto, dalle sue parole, come non pensare al “Muoia Sansone con tutti i Filistei?”. Insomma: se qui parlo io…

Se Falcone fosse rimasto vivo, ha scritto Pietro Ancona, chissà dove lo avrebbero trasferito. Del resto, fino a quando è rimasto in vita, come già ricordato, non gli hanno forse negato la nomina di capo dell’Ufficio Istruzione? Non lo hanno forse accusato di “tenere le carte nei cassetti”?

Anche Ingroia ha toccato i fili scoperti. Ha commesso un grande ‘peccato’: ha indagato sulla trattativa tra Stato e mafia. Chiamando in causa personaggi ‘intoccabili’ per definizione.

Oggi, a Palermo, si apre il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. La verità verrà a galla? Cos’è cambiato, in Italia, rispetto alle verità mancate di Portella? Secondo noi, poco. E cos’è cambiato nello scenario geo-politico del quale la Sicilia non è protagonista ma, come nel 1947 e come nel 1982, semplice pedina?

Tra qualche settimana una speciale Commissione di ‘esperti’ ci dirà che, in fondo, le onde elettromagnetiche del Muos di Niscemi, contraddicendo il principio di precauzione, non fanno male alla salute. Ci terremo anche il Muos e se i militari americani avranno bisogno di organizzare qualche altra guerra, chiuderemo al traffico civile non soltanto l’aeroporto di Trapani-Birgi, ma anche quello di Comiso.

Da un’Italia che resta ‘fedele’ agli americani e al primo coro dell’Adelchi che cosa c’è da attendersi?

Pubblicato su Linksicilia il 27/05/2013

 

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